L’insurrezione di Gwangju e l’arte da essa ispirata: parte 9 – Film, mediometraggi e corti

INDICE DEI FILM, MEDIOMETRAGGI E CORTI

TITOLO: “La conferenza del signor Kant” [“칸트 씨의 발표회”]
ANNO: 1987
DURATA: 35min
REGIA E SCENEGGIATURA: Kim Tae-young

INCIPIT: La storia narra di un fotografo che con la sua macchina fotografica, in giro per la città di Seoul, segue un uomo che chiaramente non è nel pieno delle proprie facoltà mentali. Infatti quest’ultimo erra senza meta, ripercorrendo in maniera circolare sempre le stesse tappe, e farfuglia di continuo frasi apparentemente sconnesse e senza senso, come “Il seno della ragazza tagliato come il tofu”. La causa del suo stato è proprio l’aver assistito all’insurrezione e a scene che metterebbero a dura prova chiunque (la storia della donna a cui fu tagliato il seno come fosse tofu è un’immagine già incontrata nell’arte sull’insurrezione, come ad esempio nella canzone “Song of May” 2).

Al contrario di quel che in molti credono (basti andare a leggere svariati commenti e recensioni su “A Petal”, film che analizzeremo tra poco), questo è il primo film coreano ad aver affrontato la rivolta di Gwangju, anche se non in modo esplicito. Infatti il mediometraggio, diretto basandosi sui resoconti contenuti nel libro “Oltre la morte, oltre l’oscurità del tempo, è colmo di metafore e simbolismi, alcuni non semplici da cogliere o percettibili solo dopo un’attenta analisi, ma non abbastanza nascosti, a quanto sembra, da non destare l’attenzione delle autorità, che ne permisero una distribuzione minima e ne ritirarono delle copie durante le proiezioni nei cinema, come ad esempio al Geumgang Art Theater di Daehangno (Seoul) all’inizio del 1989.

Considerando l’epoca, era praticamente impossibile superare il vaglio della censura per qualsiasi prodotto che parlasse della vicenda in maniera diretta: basti pensare che anche solo essere possessori o esporre foto di quel maggio era sufficiente per farsi arrestare (quando andava bene, altrimenti si passava alla tortura e in ultimo alla morte). Per questo stupisce il fatto che al termine della pellicola ci siano delle immagini della rivolta (probabilmente prese da fonti straniere). Ma non solo questo, perché il film porta sullo schermo anche aspetti scomodi di Seoul, come ad esempio il quartiere di Sanggye-dong: all’epoca, il governo stava abbattendo circa 200 baraccopoli costruite nella città, spinto dall’ossessione di non mostrare al mondo il volto povero e oscuro della Corea in vista delle imminenti Olimpiadi del 1988, e Sanggye-dong era tra queste aree demolite (stesso motivo che spinse all’epurazione dei clochard dalla metropoli, “spediti” e rinchiusi alla “Casa dei Fratelli” [형제복지원] a Busan, struttura in cui sono avvenute talmente tante atrocità da essere comunemente definita “l’Auschwitz della Corea”).

TORNA ALL’INDICE

TITOLO: “Terra desolata” [“황무지”]
ANNO: 1988
DURATA: 1h e 30min
REGIA E SCENEGGIATURA: Kim Tae-young

INCIPIT: nel maggio del 1980, Kim Ui-gi, un disertore con dolorosi ricordi di Gwangju, finì per lavorare in un bar vicino a una base militare statunitense a Gunsan, Jeollabuk-do, dopo essere stato in fuga per sei mesi. Ui-gi tenta quotidianamente di convivere con i sensi di colpa per aver massacrato e ucciso una ragazza durante la rivolta.

Il film è stato realizzato in onore di Kim Ui-gi, martire dell’Università Sogang, che, dopo aver assistito agli orrori dell’insurrezione, lasciò il 30 maggio 1980 una lettera intitolata “Lettera ai compatrioti” chiedendo che fosse fatta luce sulla verità, e si tolse la vita.

Le due pellicole appena citate, dalla visione opposta di vittima e carnefice della vicenda, hanno avuto nuova vita nel 2020, quando sono state unite in un’unica opera dal titolo “La confessione di maggio nella terra desolata” [“황무지 5월의 고해“], fatta uscire nelle sale coreane nell’anno del 40° anniversario dell’insurrezione.

TORNA ALL’INDICE

TITOLO:  “Oh! Terra dei sogni” [“오! 꿈의 나라 “]
ANNO: 1989
DURATA: 1h e 30min
REGIA: Chang Yoon-hyun
SCENEGGIATURA: Hong Ki-seonKong Su-chang

INCIPIT: a causa del Movimento di Democratizzazione di Gwangju e per evitare le indagini delle autorità durante la legge marziale, Jong-su, uno studente universitario e insegnante serale, è costretto a fuggire dalla città e si rifugia a Dongducheon, dove si trova una base militare americana, per cercare il suo compaesano Tae-ho.
Quest’ultimo ha come obiettivo quello di guadagnare denaro tramite il commercio illegale di beni americani e poi emigrare negli Stati Uniti.

Questa pellicola, indipendente e prodotta da un collettivo di registi chiamato Jangsan Gotmae (장산곶매, formato da Lee Eun, Chang Yoon-hyun e Jang Dong-hon), ha avuto vita dura sin dalla sua uscita ed è poi rimasta poco nell’immaginario comune.
Ricordiamo che la dittatura era caduta appena due anni prima e la rivolta di Gwangju era ancora un argomento tabù (lo prova il fatto che dei due precedenti mediometraggi, “La conferenza del signor Kant” e “Terra desolata”, uno venne distribuito solo parzialmente, mentre l’altro non vide mai la luce, se non 31 anni dopo).
Il film non nacque solo da una pura esigenza di espressione artistica del gruppo, ma anche e soprattutto come strumento di libertà contro l’oppressione del governo.

Quando questo film uscì per la prima volta, le autorità cercarono di impedirne la proiezione tramite repressioni e tentando di sequestrare la pellicola. Fortunatamente, però, il Tribunale distrettuale di Seul respinse la richiesta, permettendo così che il film venisse proiettato clandestinamente, soprattutto nelle aree universitarie. Tuttavia, poiché queste proiezioni non avevano ottenuto l’approvazione della Commissione Etica per gli Spettacoli, venne avviato un procedimento giudiziario per violazione della legge cinematografica. In seguito, grazie a una sentenza della Corte Costituzionale che dichiarava incostituzionale quella norma, il film poté essere distribuito regolarmente e proiettato ufficialmente.

La sua distribuzione ebbe uno sbocco persino in Giappone, in cui approdò al 1° Yamagata International Documentary Film Festival, ma dopo che i registi erano tutti stati accusati dalla Commissione Etica per gli Spettacoli, al Festival si presentò solamente lo sceneggiatore Kong Su-chang.
L’opera si trova per intero su Youtube anche a qualità piuttosto buona, purtroppo però senza sottotitoli (nemmeno in inglese), quindi per il momento non mi è stato possibile vederlo.

Riguardo il reale contenuto della pellicola, in realtà non è ambientata direttamente a Gwangju durante i giorni della rivolta, ma nel periodo successivo alla repressione. Pertanto la vicenda è visivamente poco presente, poiché fa capolino nella narrazione solo in flashback frammentari del protagonista. Questo è stato dovuto anche al fatto che, essendo una produzione indipendente, il budget era davvero basso e messo insieme grazie ai beni personali dei membri della troupe, e prestiti vari da amici e conoscenti degli stessi (per un totale di circa 8.200.000 di won dell’epoca, vale a dire circa 27.700.000 won di oggi, cioè attorno ai 17.600€), per cui scene complesse e dispendiose da realizzare, come il massacro di Geumnam-ro del 21 maggio, furono impossibili da realizzare e trovarono spazio nella narrazione solo attraverso racconti di ricordi degli eventi.

QUI il video di YouTube, se interessasse vederne degli spezzoni (o anche vederlo per intero, nel caso si conoscesse il coreano).

TORNA ALL’INDICE

TITOLO: “Canto della resurrezione” [“부활의 노래”]
ANNO: 1990
DURATA: 1h e 32min
REGIA: Lee Jeong-guk

INCIPIT: siamo alla fine degli anni ’70, periodo in cui c’è ancora Park Chung-hee al comando del paese e in cui le lotte sindacali prendono sempre più forza. Cheol-gi, studente dell’Università Nazionale di Chonnam, inizia a frequentare una scuola serale per lavoratori e, attraverso questa esperienza, diventa consapevole delle contraddizioni politiche della nazione, sentendo la necessità della partecipazione popolare alla realtà sociale. Insieme ai suoi compagni Tae-il, Min-sook, Hyun-sil e Bong-jun, Cheol-gi conduce un’indagine sulle condizioni delle fabbriche, comprendendo così l’ingiustizia del regime dittatoriale.

“Canto della resurrezione” è la prima pellicola su Gwangju a essere destinata alla distribuzione commerciale: mentre giravano il film, sembra che i membri della produzione, temendo possibili repressioni, fossero tormentati da incubi costanti in cui soldati armati sfondavano la porta di casa e li picchiavano brutalmente.

A non farli desistere fu solo il fatto che, nello stesso anno, era stato distribuito il bellissimo North Korean Partisan in South Korea” [“Un partigiano nordcoreano nella Corea del Sud”, in coreano “남부군”, letteralmente “divisione dell’esercito del sud”] del regista Jeong Ji-young. Pensarono: “Se un film su dei partigiani può uscire quasi integro, anche il nostro dovrebbe riuscirci.” Perciò, alla fine, il team di produzione del lungometraggio presentò una versione di 1 ora e 40 minuti alla Commissione Etica per gli Spettacoli per farlo approvare.
Tuttavia, allegando il verdetto della censura, la commissione rispose:

“…In questo momento in cui la ferita del movimento di Gwangju si sta cicatrizzando, la proiezione di quest’opera non solo è inopportuna, ma presenta anche gravi difetti di accuratezza storica, e questi difetti fanno sì che il contenuto appaia costantemente dannoso per il rapporto tra cittadini e governo, e tra cittadini ed esercito. Sebbene il tema e l’argomento siano il movimento di Gwangju, l’opera non riesce a rappresentarne la legittimità, limitandosi a giustificare incondizionatamente l’insurrezione armata del popolo.”

E con questo parole, la Commissione Etica ordinò la rimozione di 25 minuti e 13 secondi, ovviamente relativi a scene esplicite della rivolta, tra cui assemblee pubbliche, manifestazioni con torce e combattimenti presso l’edificio del governo provinciale (tutti eventi essenziali della vicenda).

La produzione era però convinta del proprio operato e non cedette alla richiesta della Commissione Etica di tagliare via tutto quel girato, così eliminarono giusto qualche minuto e lo ripresentarono quasi intatto. A questo punto la pellicola fu approvata con una lunghezza totale di 1h e 30minuti, con il divieto di visione ai minori di 18 anni. Successivamente, nel 1993, anche quei pochi minuti tagliati furono reintegrati. Comunque, nonostante il team sia riuscito nell’intento di farlo arrivare nelle sale, il fatto che abbiano faticato tanto e il fatto che il film toccasse un tema ancora fortemente ostico, fece sì che né la prima, né la seconda uscita videro il successo sperato.

In conclusione, il motivo per cui né questa, né le altre tre opere appena analizzate rientrano nell’immaginario comune quando si parla di “primo film sulla rivolta di Gwangju”, è semplicemente perché sono stati ostracizzati, non hanno avuto distribuzione adeguata all’epoca, non l’hanno avuta affatto, e anche perché sono state fatte in tempi ancora prematuri per il salto di consapevolezza necessario alla popolazione per fruire prodotti che parlavano dell’accaduto (non credo sia un caso che il film successivo fu prodotto ben sei anni dopo, quando la situazione stava radicalmente cambiando e tante verità a riguardo stavano emergendo da anni di oscurantismo sia generale, sia sull’insurrezione).

Piccola curiosità: i tre protagonisti sono ispirati a tre attivisti non solo realmente esistiti, ma anche molto importanti sia nella rivolta di Gwangju, sia negli anni precedenti di proteste sindacali. Si tratta di Yoon Sang-won, Park Ki-soon e Park Kwan-hyun. I primi due li abbiamo già conosciuti nella sezione dedicata al musical Rituale di liberazione – Le nozze di luce [“노크풀이 – 빛의 결혼식”], di cui erano i protagonisti: diversamente dal film in cui viene mostrato che Park Ki-soon muore durante la rivolta e che i due si innamorano, ricordiamo che nella realtà lei morì nel 1978 per intossicazione da monossido di carbonio e che i due non hanno mai avuto alcun tipo di relazione sentimentale. Il terzo invece, Park Kwan-hyun, era amico intimo di Yoon Sang-won e prima del 18 maggio 1980 guidò proteste contro la dittatura.
Quando il nuovo regime militare arrestò in massa gli attivisti civili con la dichiarazione della legge marziale estesa del 17 maggio (QUI per leggere le tappe principali della vicenda), riuscì a fuggire a Yeosu, ma fu purtroppo catturato e torturato nel 1982, morendo in prigione dopo uno sciopero della fame di 50 giorni.

TORNA ALL’INDICE

TITOLO:  꽃잎 [“Petalo”, internazionalmente conosciuto con il titolo “A Petal”]
ANNO: 1996
DURATA: 1h e 40min
REGIA: Jang Sun-woo
SCENEGGIATURA: Jang Moon-il, Jang Sun-woo

INCIPIT: la storia ha inizio dopo la rivolta e la protagonista è una ragazzina di quindici anni che girovaga senza meta per le campagne, in condizioni igieniche pietose e in totale stato di disorientamento.
Durante il suo vagabondare incontrerà un uomo di mezza età che scambierà per suo fratello maggiore e che per questo inizierà a seguire. L’uomo, per farla smettere di pedinarlo, ne abusa sessualmente e la maltratta, ma la ragazza non demorde e continua come se nulla fosse successo. È a quel punto che l’uomo la chiude a chiave dentro quella che dovrebbe essere casa sua (è una baracca vera e propria, il che fa capire che vive in condizioni di semi-povertà). Come se non bastasse, il signore è anche un alcolista e gli abusi sulla ragazza diventano una costante, quasi fossero la quota da pagare per averle offerto un tetto sulla testa.
In contemporanea alla nascita e all’evoluzione di questo rapporto brutale, vediamo un gruppo di ragazzi universitari che stanno cercando una ragazzina, sorella di un loro amico sparito nel nulla nel periodo appena antecedente alla rivolta di maggio: questa ragazzina altri non è che proprio la protagonista del film.

Come dicevo prima, a livello di percezione popolare, “A Petal” è stato il primo film ad affrontare l’atrocità dell’oppressione della rivolta di Gwangju e a descriverne le amare conseguenze. Sebbene abbiamo visto che effettivamente non è così, abbiamo capito come questa convinzione derivi da una distribuzione quasi nulla delle altre quattro pellicole. Da questo punto di vista, “A Petal” ha avuto ben altro destino, dato che fu il terzo film coreano per incassi del 1996 e quest’ampia distribuzione le ha permesso di essere di fatto la prima pellicola su Gwangju a essere proiettata senza censure od ostracismi di alcun tipo.

Il film non si concentra particolarmente sugli eventi di quei giorni di maggio, ma piuttosto sugli effetti della strage perpetrata in risposta ad essa, tuttavia ci sono diverse scene, rappresentate tramite flashback della protagonista, che ricreano la ferocia di quei giorni, in particolare del giorno del massacro del 21 maggio a Geumnam-ro.

La visione è di sicuro una delle più perturbanti a cui abbia mai assistito, anche al di fuori del tema “Gwangju”: basti pensare che Lee Jung-hyun, l’attrice principale, che interpreta anche scene di nudo integrale, era realmente una quindicenne all’epoca delle riprese, e che i momenti in cui subisce violenza sono piuttosto espliciti. Sono più che certa che a oggi non sarebbe mai possibile girare certe scene, non con una minorenne perlomeno.
Ma a parte questo, l’opera rimane impressa anche per il disturbante senso di desolazione di cui è permeata. Ripercorrendo il motivo per cui la protagonista ha perso il senno, si diventa testimoni di uno sconvolgimento emotivo e psicologico difficile anche solo da concepire, e che però fa comprendere come la traumaticità di eventi tragici e il senso di ingiustizia che irrimediabilmente a essi si lega, non siano solo condizioni momentanee, ma che possono perdurare nel tempo e non trovare in alcun modo la pace meritata.

TORNA ALL’INDICE

TITOLO:  박하사탕 [“Caramelle alla menta piperita”, internazionalmente conosciuto con il titolo “Peppermint Candy”]
ANNO: 2000
DURATA: 2h e 10min
REGIA E SCENEGGIATURA: Lee Chang-dong

INCIPIT: Nella primavera del 1999 un gruppo di persone si riunisce lungo la riva di un fiume per fare un picnic e a questo incontro si presenta anche il protagonista Kim Yong-ho che, in evidente stato di ebrezza, inizia a comportarsi in modo stralunato e improvvisamente se ne va su delle rotaie nelle vicinanze. Nonostante i continui richiami degli amici di levarsi dai binari, l’uomo si fa investire da un treno. Da qui parte il viaggio nella vita di questo personaggio, che inizialmente provoca un certo disagio, ma sul quale è chiaro che aleggi qualcosa di oscuro e pesante, tanto che l’ha portato all’estremo gesto.

La narrazione non è lineare, è suddivisa in sette segmenti e vengono mostrati a ritroso, dalla data più recente alla scena iniziale, fino a quella più lontana (le date delle sezioni sono “primavera 1999”, “primavera 1999 – tre giorni prima”, “estate 1994”, “primavera 1987”, “autunno 1984”, “maggio 1980” e infine “autunno 1979”).

Anche quest’opera, come “A Petal”, non è incentrata sul massacro di Gwangju, ma sui suoi effetti a lungo termine. Tuttavia la grande differenza con il precedente film, è che questo non prende in riferimento il punto di vista di una vittima, bensì di uno dei tanti carnefici.

A pensarci, non è facile riuscire a empatizzare con chi dovrebbe stare chiaramente dalla parte del torto, ma è proprio su questo che “Peppermint Candy” ci vuole far riflettere: dove sta realmente questo torto? Chi è davvero responsabile di quella vicenda e di tutti gli atti di violenza e repressione, se vogliamo ragionarla più in generale? Si può effettivamente sentire il bisogno di scavare nella vita di una persona su cui pende un crimine tanto grave, per cercare di capire quella vita e cosa lo ha portato a commettere quel crimine? Si commette ingiustizia verso le vittime attuando questo processo?
Credo che, a prescindere dalle risposte, questa pellicola serva a dare spessore e importanza al concetto stesso di consapevolezza della realtà, per quanto brutta essa sia.
Perché l’unico modo per non ripetere gli stessi errori, anche storicamente parlando, è quello di aver analizzato al meglio delle possibilità (e quindi da ogni punto di vista) ciò che è accaduto, aver preso atto delle dinamiche che si sono generate e da cosa esse siano scaturite. Lo stesso sistema sbagliato che ci divora e ci risputa senza rimorsi, è anche lo stesso che può essere ribaltato con la consapevolezza e la volontà.
Purtroppo a volte le conseguenze dei traumi vissuti, sono talmente gravi che assistere a un mondo più giusto ed equo non sempre riesce a curare le ferite e a dar senso a ciò che si è subito in passato: Kim Yong-ho non si è suicidato, la dittatura e i suoi modi lo hanno ucciso.

TORNA ALL’INDICE

TITOLO: 화려한 휴가 [“Una splendida vacanza”, internazionalmente conosciuto con il titolo “May 18”]
ANNO: 2007
DURATA: 1h e 58min
REGIA: Kim Ji-hoon
SCENEGGIATURA: Park Sang-yeonNa Hyun

INCIPIT: siamo a Gwangju, nel maggio 1980. Il protagonista, Min-woo, è un tassista che vive da solo con il fratello minore, Jin-woo, al quale è molto legato. Min-woo è innamorato di Shin-ae, un’infermiera che frequenta la stessa chiesa di Jin-woo. Un giorno vanno insieme a vedere un film, ma appena prima che questo inizi, da fuori sembrano arrivare suoni di sirene. Quando i due escono dal cinema si ritrovano davanti uno scenario terrificante: la polizia antisommossa sta sparando contro i civili, che vengono brutalmente uccisi senza neanche avere il tempo di reagire. Come se non bastasse, Min-woo vede Jin-woo venire colpito a morte proprio davanti ai suoi occhi. Così il protagonista e altri famigliari delle vittime, decidono di formare un esercito di cittadini, guidato dall’ufficiale militare in pensione Heung-soo, per contrastare l’oppressione militare.

Considerando tutte le altre trame, si può affermare senza molti dubbi che questo lungometraggio sia stato il primo ad aver incentrato la propria narrazione sulle giornate di Gwangju, tuttavia, nonostante questo e nonostante abbia ricevuto un buon successo popolare e di critica, ci sono stati anche diversi dissensi: ad esempio, è stato accusato di non aver sufficientemente spiegato il contesto in cui la vicenda avviene, oppure di non aver rappresentato in maniera realistica la lotta tra la milizia e l’esercito. Nel film infatti sembra verificarsi una battaglia feroce tra le due parti, quando nella realtà, per via dei mezzi e del numero di persone, sappiamo bene che l’attacco è stato quasi unilaterale. Basti guardare alle vittime finali: stiamo parlando di circa 500/600 morti civili, contro una ventina di morti tra le forze dell’ordine e militari (QUI per i dati precisi). In ultimo gli è stato anche rimproverato di non aver riportato fedelmente il dialetto della zona di Gwangju.

Anche se può sembrare “fuori luogo”, sono arrivate accuse di aver distorto i fatti anche da un gruppo di sostenitori dell’ex presidente Chun Doo-hwan, chiamato Jeonsamo [전사모]: siccome ufficialmente ancora non si sa chi abbia di fatto dato l’ordine di aprire il fuoco sui civili durante il massacro del 21 maggio 1980, e dato che il film invece sembra suggerire Chun Doo-hwan come colpevole, hanno pensato di intentare una causa contro la produzione del film per miliardi di won. Tuttavia sembra che la cosa non sia proseguita, dato che non si sono avute più notizie a riguardo.
Come commentare la cosa? Sebbene sia vero che ancora non si sappia chi abbia dato l’ordine ufficiale, e che Chun Doo-hwan abbia sempre negato di essere stato lui, è altrettanto comprovato che l’assedio militare con la conseguente oppressione sulla popolazione di Gwangju, sia stato comandato da lui. Pertanto sì, è ovvio che sia importante consegnare alla giustizia il vero colpevole, tuttavia, pur ammettendo la sua innocenza riguardo il massacro del 21 maggio, non è che ciò lo deresponsabilizzerebbe da tutte le altre atrocità commesse nei suoi otto anni di regime. Perché davvero, l’arroganza con cui questo gruppo ha minacciato la produzione, sembra quasi voler dire che, siccome quell’evento specifico potrebbe non averlo scatenato lui (ma il contesto in cui è avvenuto comunque per suoi ordini), allora è stato meno malvagio di quanto lo si accusi. Tra l’altro la malafede si può leggere anche nel fatto che non si siano presentati, né loro come gruppo di sostenitore dell’ex presidente, né Chun Doo-hwan stesso, all’incontro richiesto dall’associazione delle madri delle vittime del 18 maggio (Associazione delle madri di maggio) per vedere insieme il film e aprire poi un dibattito pubblico sulla vicenda.

Piccola curiosità: il nome originale della pellicola “Una splendida vacanza” sembra derivare dal soprannome militare ufficioso che venne dato alla missione di Gwangju.

TORNA ALL’INDICE

TITOLO: “26년” [“26 anni”]
ANNO: 2012
DURATA: 2h e 15min
REGIA: Jo Geun-hyun
SCENEGGIATURA: Lee Hae-young, Jo Geun-hyun

INCIPIT: l’opera narra della vendetta di un gruppo di persone, tutti parenti stretti di vittime della strage, che vogliono uccidere colui che ha comandato il massacro all’epoca (che altri non è che Chun Doo-hwan, anche se non credo ne venga mai fatto direttamente il nome).

Questa è un’opera che abbiamo già incontrato nella giornata dedicata ai fumetti, essendo un adattamento del webtoon omonimo (QUI per leggere info a riguardo), e nella giornata dedicata all’animazione, perché nei primi 10 minuti circa presenta una parte animata che mette in scena proprio il massacro (QUI per leggere info a riguardo).

Dopo svariate difficoltà di realizzazione, dovute a un arresto inziale del progetto e all’esigenza di dover raccogliere i fondi necessari tramite crowdfunding, e nonostante al botteghino sia andato piuttosto bene, sul piano della critica i commenti sono stati molto tiepidi e alcuni lo hanno rapportato all’opera originale dicendo che non è un adattamento all’altezza.

TORNA ALL’INDICE

TITOLO: “꽃피는 철길” [“I binari in fiore”]
ANNO:
2013
DURATA:
14 minuti
REGIA E SCENEGGIATURA:
Kim Rae-won

INCIPIT: siamo alla stazione di Nampyeong in un giorno di maggio del 1980. Il treno che dovrebbe arrivare da Gwangju non arriva, e due ferrovieri tentano un contatto telefonico a cui nessuno risponde. Il capostazione ricorda che nemmeno durante la rivolta del 1960 o il colpo di stato del 1961 i treni si fossero mai fermati, quindi cosa stava accadendo a Gwangju? Dal canto suo, anche il vice capostazione è molto preoccupato, perché sua moglie è andata a Gwangju per partorire.

La storia affronta la rivolta in maniera inusuale e molto poetica, facendola vivere da un punto di vista distante dal luogo e dai fatti. La stazione, avvolta da un’atmosfera di pace primaverile espressa tramite il classico immaginario dello svolazzare dei petali, è in totale contrasto con il caos che sappiamo sta accadendo in quel momento a Gwangju. In questi brevi 14 minuti scarsi di filmato, il senso di mancanza e di attesa si fanno tangibili: la mancanza di una persona amata da cui ci si sente ancora più distanti perché non si riescono ad avere contatti di alcun tipo, l’attesa di un treno che non arriva, di un suono e di vibrazioni che già da lontano allevierebbero l’animo, o di notizie da una città che sembra essere stata tagliata fuori dal mondo. Perché è normale chiedersi come abbiano vissuto quei giorni di rivolta gli abitanti di Gwangju, ma è altrettanto importante domandarsi: le persone al di fuori della città, che all’improvviso, senza avere alcuna spiegazione, non hanno più avuto accesso ad essa e non sono più riusciti ad avere notizie dei propri cari, come possono aver vissuto la situazione?

TORNA ALL’INDICE

TITOLO: “포크레인” [“L’escavatore”, internazionalmente conosciuto con il titolo “Fork Lane” o “The Excavator”]
ANNO: 2017
DURATA: 1h e 32min
REGIA: Lee Ju-hyoung
SCENEGGIATURA: Kim Ki-duk

INCIPIT: Ci troviamo agli inizi del 2000 e il protagonista, Kim Gang-il, lavora in proprio con il suo escavatore: un giorno, mentre sta scavando, rinviene delle ossa umane e chiama la polizia.
Questo “incontro” inaspettato innesca in lui dei terrificanti ricordi e sente l’esigenza di intraprendere un cammino per scovare il bando di una matassa troppo a lungo rimasta intrecciata.

Come altri casi, la storia non si focalizza sulle dinamiche dei giorni del massacro, quanto sull’impatto che ha avuto su chi ci ha partecipato e ne è stato testimone. Come in “Peppermint Candy”, anche qui il punto di vista è quello di membri dell’esercito.

Il cammino è molto particolare anche dal punto di vista fisico, perché l’uomo va letteralmente in giro per la città con l’escavatore che, essendo un mezzo con i cingoli, non è adibito a marciare su strada (tra l’altro va anche lentissimo). Con questo attrezzo improbabile, e con questa andatura lemmatica che a ogni cigolio fa avvertire ancora più il peso che porta nel cuore Gang-il, l’uomo cercherà e troverà, una alla volta, tutti i commilitoni della sua truppa, con cui fu anche mandato a Gwangju per la repressione. Dopo aver fatto visita a loro, inizierà a recarsi anche dai suoi superiori, ogni volta di un grado più in alto, a cui chiede con fermezza: “Perché ci avete mandato lì?”.
Così Gang-il, dopo venti anni di silenzio e sensi di colpi soffocati dalla quotidianità e da una non elaborazione dello shock stesso, dovrà fare i conti con i suoi traumi e con quelli degli altri, in una ricerca spasmodica e irrefrenabile di un qualcuno a cui dare la colpa.

Purtroppo la pellicola ha avuto vita dura ed è poco conosciuta per via delle accuse di molestia e violenza sessuale nei confronti di Kim ki-duk, avvenute proprio in quell’anno.
E dico purtroppo, perché a prescindere dalla sua colpevolezza o meno, mai appieno provata prima della sua morte, un film è un impiego di forze comuni: il cast, la troupe, i tecnici, i costumisti, i truccatori, etc, sono tutte parti che col fatto in sé non c’entrano nulla, quindi quando accade che un’opera (film o drama che sia) venga affossata a causa di un solo membro, dispiace sempre per tutti gli altri che ci hanno lavorato e per l’opera in sé, che sul piano creativo e artistico potrebbe essere valida, come in questo caso.

TORNA ALL’INDICE

TITOLO: 택시운전사 [“Il tassista”, internazionalmente conosciuto con il titolo “A Taxi Driver”]
ANNO:
2017
DURATA: 2h e 17min
REGIA: Jang Hoon
SCENEGGIATURA: Jo Seul-yeUhm Yoo-na

INCIPIT: Un tassista vedovo cresce da solo la sua giovane figlia e lavora duramente per ripagare le spese ospedaliere lasciate dalla defunta moglie. Un giorno, sente dire che uno straniero è disposto a pagare una grossa somma per un passaggio da Seul alla città di Gwangju e ritorno. Ignaro del fatto che lo straniero è un giornalista tedesco, accetta il lavoro e parte insieme a lui per questo viaggio. (Trama presa da MyDramaList).

Questa pellicola racconta un aspetto fondamentale della rivolta, che però non era mai venuto alla luce prima (almeno pubblicamente), e cioè il fatto che è stato grazie al rischio corso da giornalisti stranieri (come il protagonista del film, Jürgen Hinzpeter, divenuto poi molto noto per questo) e alle loro riprese e foto, che prima all’estero, e poi in Corea del Sud stessa, si è venuto a conoscenza di cosa fosse realmente accaduto a Gwangju in quei giorni di isolamento forzato della città.

Tuttavia quella di “A Taxi Driver” è solo in parte una storia vera, poiché alcuni aspetti sono stati romanzati o inventati: ad esempio, mentre nel film si conoscono l’identità e la storia del tassista, nella realtà, all’epoca della produzione del film, si sapeva poco o nulla di lui, pertanto tutto ciò che riguarda la sua sfera personale fu inventato a scopo narrativo. Solo successivamente, grazie alla testimonianza del figlio e a delle prove fotografiche, si è venuto a sapere il vero nome del tassista, Kim Sa-bok, e che lui e Hinzpeter si conoscevano dal 1975, quindi ben prima dell’insurrezione di Gwangju (e pertanto non è nemmeno vero che, come si vede nel film, il tassista ha accettato la corsa fino a Gwangju per soldi. Nella realtà Kim Sa-bok offriva, previa prenotazione, un servizio particolare ai giornalisti stranieri: faceva loro da guida e passava loro informazioni sociali e politiche riguardanti la Corea del Sud). Ci sono altri aspetti inventati, come ad esempio la fuga in taxi dei due, con tanto di inseguimento: nella realtà non c’è alcuna testimonianza che per uscire dalla città subirono un tale trattamento, al contrario riuscirono ad andarsene in tranquillità, seppur con il rischio di venire scoperti per aver filmato e fotografato quanto precedentemente accaduto.
Non corrisponde a verità nemmeno il fatto che Hinzpeter andò a Gwangju da solo, perché lo accompagnò un tecnico del suono di nome Henning Loumore, e non fu nemmeno l’unico giornalista straniero a trovarsi lì quei giorni, come appare nel film.

In ultimo, non è reale il ricongiungimento dei due alla fine del film, perché dopo gli eventi di Gwangju, Hinzpeter non è più riuscito a contattare Kim Sa-bok e a ritrovarlo, perché quest’ultimo lavorava in proprio, quindi non c’era nessuna compagnia di taxi da cui avere informazioni. Inoltre, dopo gli eventi, il tassista ha iniziato a bere per via del trauma subito dall’aver assistito a quella tragedia, morendo pochi anni dopo nel 1984, per un tumore al fegato.
Per questo Hinzpeter, fino alla sua morte nel 2016, si è sempre detto profondamento dispiaciuto per non essere mai più riuscito a incontrare il suo “compagno”.

In conclusione sì, nel film ci sono molti aspetti non veritieri, tuttavia, in base alla conoscenza che si aveva all’epoca della questione, la produzione ha semplicemente cercato di far emergere una storia troppo a lungo finita nel dimenticatoio, anche come simbolo di tutti quei cittadini “comuni” che hanno contribuito nel loro piccolo e nei limiti delle loro possibilità, al movimento di democratizzazione del paese. Alcune scene sono state pensate e realizzate senza dubbio anche per dare un certo impatto cinematografico, tuttavia il film rende comunque giustizia ai soprusi avvenuti durante quei giorni di oppressione e all’eroicità di certe gesta.

Note: di Hinzpeter si è già parlato nella giornata dedicata ai documentari, QUI per leggerne di più.

TORNA ALL’INDICE

TITOLO: “1987” [internazionalmente conosciuto con il titolo “1987: When the Day Comes”]
ANNO:
2017
DURATA:
2h e 9min
REGIA:
Jang Joon-hwan
SCENEGGIATURA:
Kim Kyung-chan

INCIPIT: è la storia delle autorità e delle persone che cercano di rivelare la verità, mentre altri tentano di insabbiare l’omicidio di Park Jong-cheol, diventato la scintilla del movimento di democratizzazione sullo sfondo degli eventi del 1987. (Trama presa da MyDramaList).

Questo film non riguarda direttamente l’insurrezione di Gwangju, tuttavia ho deciso di inserirlo perché non solo è risaputo storicamente che i due eventi, cioè l’insurrezione di Gwangju e la rivolta di giugno del 1987, siano strettamente connesse, ma anche perché nel film viene chiaramente mostrato che all’interno delle coscienze degli studenti universitari scattò la convinzione necessaria alla lotta proprio dopo aver visto una videocassetta: quest’ultima era il risultato del montaggio di numerosi video di ciò che era accaduto sette anni prima, e il suo scopo era quello di far scoprire la verità anche all’interno del paese, in cui le notizie dell’epoca al di fuori di Gwangju erano state completamente manovrate.
Note: di questa cassetta si è già parlato nella giornata dedicata ai documentari, QUI per leggerne di più.

TORNA ALL’INDICE

TITOLO: “1980” [internazionalmente conosciuto con il titolo “1980: The Unforgettable Day”]
ANNO: 2024
DURATA: 1h e 45min
REGIA E SCENEGGIATURA: Kang Seung-yong

INCIPIT: è ambientato a Gwangju nel maggio 1980, appena prima del Movimento di Democratizzazione. La storia segue una famiglia che, dopo il colpo di stato militare, cerca di realizzare i propri sogni. Il patriarca, Cheol-su, apre un ristorante cinese, ma la sua felicità viene travolta dalla violenza degli eventi. Il film intreccia eventi storici reali con la narrazione familiare, utilizzando filmati d’archivio per aumentare l’impatto emotivo.

Di quest’opera si trovano davvero pochissime informazioni: l’unica cosa che appare certa è che sia stato un flop in patria e non sembra aver avuto buone recensioni, tanto che in molti lo hanno definito “il peggior film sul 18 maggio”. Tuttavia i motivi per una stroncatura di questo livello non sono molto chiari: si parla di cattiva recitazione, ma a vedere il cast mi sembra strano, oppure di realizzazione povera e confusa, e questo ci può anche stare (anche se dal trailer sembra interessante).

TORNA ALL’INDICE

Fonti:

3 pensieri riguardo “L’insurrezione di Gwangju e l’arte da essa ispirata: parte 9 – Film, mediometraggi e corti

Lascia un commento