Corea del Sud: quando la televisione riunì migliaia di famiglie separate da decenni

Chi è un minimo appassionato di drama o semplicemente conosce anche solo di poco la Corea del Sud avrà sentito parlare della “KBS” (Korean Broadcasting System), il servizio pubblico di radiotelevisione coreana (come la Rai da noi, per capirsi).

Quello che però probabilmente non sa quasi nessuno al di fuori del paese è che nell’estate del 1983, la KBS ideò un programma intitolato “Finding Dispersed Families”, che diede vita a un vero e proprio fenomeno, alimentando quello che divenne un caso unico al mondo e di una rilevanza storica e umana fuori dagli schemi.

INDICE

Contesto storico

Prima di spiegare in cosa consistette il programma, è necessario capire il perché si sia arrivati a idearlo, e per farlo, bisogna fare un quadro generale della situazione in cui versava la Corea del Sud in quegli anni.

Decontestualizzando, potrebbe sembrare che questo programma sia stato un sosia del nostro “Carramba! Che sorpresa”, ma nella realtà, sia il motivo della sua creazione, sia la sua portata furono ben più di un semplice programma commovente per riunire qualcuno che non si vedeva da anni.
Per addentrarci bene nel significato di “Finding Dispersed Families” bisogna andare indietro di circa settant’anni, e anche di più.
La storia della Corea del Sud del secolo passato è stata piuttosto travagliata: tra l’occupazione giapponese che durò trentacinque anni (dal 1910 al 1945), la divisione in due della Corea (stato in cui tutti la conosciamo oggi), e la Guerra di Corea durata dal 1950 al 1953, la popolazione ha vissuto nella più totale povertà, confusione e incertezza.
Scendendo più nel dettaglio, vediamo alcuni dei fattori principali che si possono ritenere rilevanti o persino decisivi per il quadro che si delineò nei decenni successivi:

  • La migrazione di massa da nord a sud interna alla Corea, dovuta all’ufficializzazione della separazione del paese lungo il 38° parallelo, nel 1948: al sud, appoggiato dagli Stati Uniti, ci furono le prime elezioni del Presidente della Repubblica, non eletto dal popolo, ma dai membri dell’Assemblea nazionale (apparato che avrebbe scritto la nuova Costituzione, basata su quella statunitense), che a loro volta furono eletti democraticamente dal popolo. Questa elezione democratica era inizialmente prevista su tutta la Corea, proprio come mezzo di riunificazione del paese, tuttavia, essendo una manovra supervisionata dalle Nazioni Unite, la corea del Nord, appoggiato dall’Unione Sovietica, rifiutò ogni ingerenza degli Stati Uniti, e così l’elezione avvenne solo nella parte sud del paese.
    Certo è che parlare di democrazia nel contesto di terrore e di brogli che si creò, risulta complesso, tuttavia fu di fatto la prima volta che i coreani poterono votare, dato che dal 1910 al 1945 c’era stata l’occupazione giapponese, e prima ancora il longevo comando della Dinastia Yi che regnò per circa 500 anni sul paese.
  • Appena due anni più tardi dell’ufficializzazione del confine, quest’ultimo venne surclassato e annullato da qualcosa di ben più incisivo: l’Inizio della Guerra di Corea nel 1950. Soprattutto nel primo anno di guerra, nord e sud sconfinarono svariate volte in territorio nemico per conquistarlo: dapprima il Nord arrivò a mangiarsi quasi tutto il Sud, poi il Sud riuscì a respingerli pian piano e a loro volta riconquistarono tutte le loro terre e si presero buona parte del Nord. Poi di nuovo il Nord li respinse e rientrò nel loro territorio, poco sotto Seoul, e infine il Sud li respinse nuovamente e ributtò il Nord più o meno nei limiti di territorio da cui erano partiti. 
    A questo proposito, lascio qui un video che riassume velocemente ciò che accadde sul territorio durante quegli anni: vederlo sulla mappa può rendere ancora più chiara la questione.

Quindi, in sostanza, nel primo anno di guerra ci furono spostamenti di massa impressionanti per sfuggire ai relativi attacchi nemici nei territori conquistati, mentre i restanti due anni furono più un gioco forza sul confine tra le due Coree. Fatto sta che se già molte famiglie si separarono per via della migrazione da Nord a Sud nel ’48, e non erano più riuscite a contattarsi, nel ’50 (e negli anni successivi) le possibilità di ritrovare qualcuno che probabilmente si era ulteriormente spostato per scappare, erano ancora più basse, e soprattutto, nelle fughe generali, perdersi e non ritrovarsi più era molto più facile e usuale di quello che si può pensare.

  • Furono numerose le vittime della guerra, circa tre milioni, il cui 70% erano civili. In questa atmosfera mortifera, non era raro che i bambini rimanessero orfani, e che i fratelli venissero separati e a volte affidati a famiglie differenti, anche in città distanti tra loro, oppure, cosa che accadeva più frequentemente, che finissero in orfanotrofio.
    Il video che ho postato è uno dei tanti casi di separazione di fratelli rimasti orfani (sono disponibili i sottotitoli in inglese, cliccando sul tasto CC).
    *Per chiunque volesse approfondire la questione tramite i video del programma, su Youtube se ne trovano moltissimi, anche di interi episodi.
  • Durante l’occupazione giapponese, tra il febbraio e l’agosto del 1940, i coreani furono solertemente sollecitati nel cambio del loro nome in uno giapponese, appunto: non si trattò di una legge, quindi mancava il tono perentorio e assoluto, tuttavia, visto che per qualsiasi operazione ufficiale o legale (come l’assegnazione del lavoro o i recapiti postali) serviva un nome nipponico, di fatto molti coreani si trovano costretti a prendere parte alla cosa.
    Per far capire meglio: l’ordinanza uscì, come detto prima, nel febbraio del ’40, e fino ad aprile solamente il 7,6% della popolazione aveva cambiato nome. Tuttavia nell’agosto dello stesso anno, alla termine dell’ordinanza, la percentuale era vertiginosamente lievitata al 79,3%, quindi quattro quinti della popolazione aveva un nome giapponese. I nascituri, di conseguenza, venivano registrati direttamente con il nuovo nome giapponese della famiglia, ed è da qui che si può guardare al cambio del nome come a uno dei tanti fattori che incrementarono la dispersione delle famiglie.
  • Approfondendo, sempre durante l’occupazione giapponese, e soprattutto negli anni della Seconda Guerra Mondiale, moltissimi coreani furono portati in Giappone: gli uomini a lavorare in condizioni pietose e massacranti (tanto che si stima ne siano morti circa 60mila), poiché i giapponesi erano impiegati nelle forze militari e quindi il paese si era trovato con un buco nella forza lavoro. Nel mentre, per migliaia di donne (o addirittura ragazzine), il destino fu ancora più infame, poiché vennero strappate alle famiglie per ricoprire il ruolo di “donne di conforto” (non credo che debba star qui a spiegare cosa si intendesse con questo termine e cosa accadesse loro). Se erano presenti dei figli e i genitori si trovavano costretti ad andarsene, era consuetudine lasciare la prole a dei familiari, senza sapere quando sarebbero riusciti a tornare.
  • Date queste premesse, si può facilmente intuire il caos che si creò quando si trattò di ritornare in patria alla fine della guerra, e al contempo di ritornare al nome coreano: nel tumulto generale dato dalla situazione, in una nazione di fatto senza stato, sul piano burocratico e pratico ci fu la confusione più assoluta. Basti pensare che molte persone conoscevano soltanto il nome giapponese dei propri parenti e quando si è tornati ai nomi originari nel ’46, a molti bambini fu assegnato per la prima volta un nome coreano, ovviamente sconosciuto agli eventuali famigliari da cui erano stati separati.
  • Nel 1948, sotto il comando in corea del Sud dell’appena eletto Presidente Syngman Rhee che stava attuando una repressione violentissima, migliaia di coreani scapparono clandestinamente in Giappone per sfuggire ai vari massacri, e queste fughe, data la loro natura, avvennero nelle condizioni più impensabili.

Il fatto che migliaia di persone si siano trovate separate dai propri cari, non aveva smembrato solamente i singoli nuclei famigliari, ma aveva fatto disperdere un senso fondamentale di appartenenza al proprio paese e di unità, sia perché molti di fatto andarono a finire ad abitare all’estero (negli Stati Uniti o in Giappone), sia perché, anche coloro che rimasero in Corea avvertivano la mancanza di radici forti che li potessero far sentire parte di qualcosa di più grande: fu come se si fosse creato un buco invisibile, tuttavia doloroso, nel cuore del paese.

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“Finding Dispersed Families”

Il programma, andato in onda per la prima volta il 30 giugno 1983, fu pensato come omaggio per il 30° anniversario dal cessate il fuoco che mise fine alla guerra di Corea.

Erano inizialmente previsti un totale di 95 minuti di programma (il cui titolo era leggermente diverso, “I Still Haven’t Found my Family“), senonché alla KBS iniziarono ad arrivare migliaia di richieste di partecipazione di persone in cerca dei propri famigliari. E’ così che si resero conto della reale portata della questione e decisero conseguentemente di creare qualcosa di molto più duraturo e organizzato.
Ci fu un dispiego di forze inimmaginabile: “scesero in campo” 1641 esperti di radiodiffusione, i giornalisti di venticinque nazioni trasmisero notizie a riguardo ininterrottamente, rimanendo appostati di fronte all’entrata della stazione radiotelevisiva, e furono istallati ventiquattro televisori sia fuori, sia dentro la sede, per permettere ai cittadini di rimanere aggiornati.
Il livello popolare di attenzione e di partecipazione alla trasmissione è ben intuibile dalle foto dell’epoca, che come si può vedere, ritraggono il piazzale davanti la KBS gremito di persone e completamente tappezzato di volantini e cartelli.


Il programma terminò il 14 novembre dello stesso anno, con un totale di 435 ore di messa in onda e oltre 53mila partecipanti (anche se le richieste effettive furono oltre le 100mila): il risultato di questa titanica impresa fu la riunione di oltre 10mila famiglie. Il programma ha avuto dei picchi di ascolto quasi inverosimili: si è arrivati a uno share del 78%, con quasi 5 milioni di spettatori.


“Finding Dispersed Families” fu talmente fondamentale per il paese e di una tale rilevanza sociale anche in un quadro più internazionale, che addirittura, nel 2015, è entrato nel programma dell’UNESCO “Memoria del mondo”, il cui obbiettivo ultimo è preservare, quanto più possibile, documentazioni e reperti storici sparsi per il globo.

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“Gilsotteum”, il film

Per sottolineare il fatto che guardare film o telefilm è un modo per approfondire una cultura, ciò che mi ha portato a conoscere questo programma e il fatto che così tante famiglie fossero rimaste separate, è stato proprio un film del 1986 del famosissimo e molto amato regista coreano Im Kwon Taek, dal titolo “Gilsotteum“, visibile sul canale Youtube Korean Classic Film con i sottotitoli in italiano (dello stesso regista è il film “The Geneaology“, altro splendida opera, incentrata sul cambio del nome avvenuto nel 1940, argomento di cui ho parlato poco sopra).

La pellicola, di cui consiglio assolutamente la visione, è impregnata di un forte realismo, e mostra fin troppo vividamente le conseguenze di questa disgregazione capillare della popolazione e soprattutto l’impatto sui singoli individui, che hanno reagito al fenomeno generato dal programma nelle maniere più impensate.
Il film infatti si concentra su una visione personale degli eventi, in particolar modo quelli della protagonista, e illumina zone dello spettro emotivo umano di difficile interpretazione se non immerse nel contesto specifico: nelle violenze e nelle turbolenze degli anni ’40/’50, le separazioni dai propri genitori, figli, fratelli, sorelle, non furono quasi mai volontarie, o quantomeno mai volute, quindi nel caso ci si fosse riuniti dopo più di trenta anni, cosa sarebbe potuto accadere?
D’istinto si risponderebbe che tutti sarebbero stati felici di riabbracciarsi, e sebbene nella maggior parte dei casi sia stato realmente così, in altri è accaduto che ci sia stato un rifiuto psicologico da una delle parti, per repressi sensi di colpa, per difficoltà ad ammettere che quella persona, in fin dei conti sconosciuta, potesse essere davvero un famigliare, o semplicemente per la difficoltà a inserirlo in nuovi contesti famigliari che ovviamente si erano creati in quei lunghi decenni di separazione.
Oppure, al contrario, è accaduto che figli che non avevano ritrovato i propri genitori e genitori che non avevano ritrovato i propri figli, abbiano finito per riunirsi in una famiglia che in realtà non aveva reali legami di sangue, proprio per colmare il senso di vuoto e di perdita che non avrebbe trovato pace in nessun altro modo.

Per far comprendere chi la donna stia cercando all’inizio del film, quest’ultimo è costellato di flashback che raccontano la storia della protagonista: tramite il suo personalissimo percorso, ci viene presentato il volto della Corea di circa trenta/quaranta anni prima, in tutti i suoi aspetti più cruenti, complessi e terrificanti, e ci viene mostrato quanto fu “normale” e “comune” vivere delle disgrazie personali.
Ogni evento vissuto da un individuo, se preso singolarmente, disegna la storia della persona, ma se questo disegno si sovrappone a migliaia di storie simili tra loro perché nate dallo stesso contesto storico e sociale, allora diventa una questione nazionale, una ferita che riguarda l’intero paese e la popolazione tutta. Questa ferita è stata in parte curata grazie a “Finding Dispersed Families”.

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