“Eyes of Dawn” (conosciuto anche come “Eyes of Daybreak” o “Years of Upheaval”) è una serie coreana drammatica, d’azione e romantica, di stampo storico. Fu creato come progetto speciale per festeggiare il trentennale della MBC (dalla sua nascita come stazione radiofonica nel 1961). Infatti il primo episodio venne mandato in onda il 1° ottobre 1991, mentre l’ultimo il 6 febbraio del ’92. L’opera si compone di 36 episodi da 45/50 minuti l’uno, tranne l’ultimo che è lungo 1 ora e 20 minuti circa.
Il regista è Kim Jong-hak, la sceneggiatrice Song Ji-na, entrambi nomi molti noti al mondo dei drama, perché proprio grazie a questa serie sono riusciti ad affermarsi e a farne la storia. L’ultimo lavoro del regista è stato il drama storico “Faith“, con protagonista Lee Min-ho, mentre la sceneggiatrice è forse ancora più nota a noi appassionati occidentali per “Healer” (con Ji Chang-wook e Park Min-young), drama amatissimo e con cui molti (me compresa) hanno mosso i primi passi nel mondo della serialità coreana.
TRAMA: la storia inizia nel 1943, in piena seconda guerra mondiale. La Corea (in quel momento ancora unita) è occupata dai giapponesi, e il popolo coreano è sottomesso alla loro leggi e alle loro regole da ormai 33 anni. La nostra protagonista, Yoon Yeo-ok, viene presa di forza dal proprio villaggio e portata in un campo militare giapponese come “donna di conforto”. Anche i due protagonisti maschili vengono introdotti in due contesti tutt’altro che tranquilli e felici (dopotutto il periodo era quella che era): Jang Ha-rim è studente universitario di medicina in Giappone e viene accusato di far parte di un movimento di ribelli comunisti. Per questo, volendo sviare le accuse e sfuggire a una situazione pericolosa, accetta di entrare nell’esercito: viene spedito in Cina, a lavorare nell’area 731, un complesso segreto in cui i giapponesi stanno conducendo esperimenti (anche sull’uomo, usando come cavie i prigionieri) per creare armi biologiche di massa a scopo bellico.
Choi Dae-chi invece è uno studente militare che fa parte di un’armata giapponese in cui viene continuamente maltrattato dai suoi superiori per il mero fatto di essere coreano: suddetti maltrattamenti viaggiano dal “solo” essere chiamato con nomi dispregiativi come “cane del Joseon”, fino a veri e propri pestaggi o esercizi punitivi che rasentano la tortura.
In questo quadro di completa incertezza, violenza, paura del futuro e solitudine, piano piano il destino dei tre si compie inesorabilmente, facendoli incontrare e separare svariate volte nel corso dei (circa) dieci anni che vengono raccontati dal drama, periodo che va dal pieno del secondo conflitto mondiale fino alla fine della guerra di Corea nel ’53.
N.B. : quella che mi accingo a fare non è una classica recensione, perché l’opera in questione non è semplicemente un capolavoro: “Eyes of Dawn”, come suggerisco anche nel titolo dell’articolo, è IL DRAMA COREANO per eccellenza, quello che ha segnato un prima e un dopo, che ha cambiato la storia dei drama e ancora di più quella del paese, formando la conoscenza (o mutando la percezione) che il cittadino comune e gli artisti avevano di determinati argomenti prima della sua messa in onda.
Indice
- Imparzialità politica, etica e morale dell’opera
- Validità storica
- Le “donne di conforto”
- Comparto tecnico e cast
- Tempistiche e spese di produzione
- Rating di ascolti, premi vinti e adattamenti
- Opinione pubblica e della critica
- Romanzo originale
- Curiosità sul regista
- Musiche
- Reperibilità del drama
Imparzialità politica, etica e morale dell’opera
Considerando la complessità dell’epoca, cosa emerge dal drama, eticamente e politicamente parlando? Si potrebbe pensare che, essendo la serie una produzione sudcoreana e parlando dei torti subiti dal paese, il punto di vista possa essere di parte. D’altronde non sarebbe risultato strano, dato che erano già piuttosto comuni le opere di filone han, termine che in Corea del Sud vuole indicare un insieme di sentimenti popolari repressi molto profondi e stratificati, che viaggiano dal risentimento alla rabbia, dalla sofferenza alla disperazione e al senso di perdita, per arrivare infine al rimorso e al senso di sconfitta e inettitudine. Tuttavia la serie non potrebbe essere più distante da ciò, e questa è la cosa che mi ha colpita maggiormente. “Eyes of Dawn” ha avuto sì il coraggio di denunciare le atrocità perpetrate dai giapponesi durante gli anni di occupazione e della seconda guerra mondiale, tuttavia non si è tirato indietro nemmeno quando si è trattato di esporre, così come sono avvenuti, i crimini commessi dai coreani stessi nei confronti di altri coreani, o dagli statunitensi, da cui la Corea del Sud era supportata.

A tal proposito, è indicativo l’arco narrativo di ben sei episodi, incentrato sulla situazione nell’isola di Jeju e sul suo massacro (avvenuto tra l’aprile del 1948 e il maggio del ’49, e che lasciò dietro di sé, a seconda delle diverse stime, fra i 16.000 e i 100.000 morti): i comunisti in fuga che, andandosene dalla terraferma, avevano trovato un rifugio più sicuro lì, consapevoli che gli abitanti di Jeju erano contrari alle elezioni che si sarebbero svolte nel ’48 (e che avrebbero portato a una spaccatura definitiva della Corea), fomentarono i loro animi già piuttosto agitati, approfittandone per scagliarsi contro le forze di polizia e le autorità locali (fondamentali per il controllo americano), già non viste di buon occhio perché accusate di collaborazionismo durante il periodo di occupazione giapponese. Questo diede vita a repressioni violentissime per mano dell’esercito sudcoreano e, secondariamente, degli Stati Uniti, allo scopo di cancellare ogni traccia di ribellione.
Ma non solo questo: è importante anche sottolineare che non tutti i giapponesi, in quanto tali, sono stati mostrati come cattivi, quindi anche da questo punto di vista non è stata assunta una posizione assolutista. Ovviamente la maggior parte vengono dipinti come nemici (perché di fatto lo sono stati per i coreani, e non solo), tuttavia si è cercato di dare spazio anche alle singole circostanze: quando si vanno ad approfondire storie in contesti di guerra o simili, si troverà sempre il caso in cui il nemico ha evitato di far del male se non strettamente necessario, in cui non è stato spietato come di norma, in cui ha fatto finta di non vedere o sentire informazioni importanti per la sua parte, o ha addirittura aiutato l’altra parte rischiando anche la propria vita. Questo approccio è fondamentale se si vuole realizzare un quadro che sia il più realistico possibile.
A tal proposito va sottolineato come le scelte portate avanti dai personaggi siano sì dovute al proprio credo e ai propri ideali, ma anche dalle esigenze del momento, per cui li vediamo appoggiare un’ideologia o l’altra in base ad esse. Per quanto sia poetico descrivere soggetti che rimangono fedeli ai propri principi senza cedere mai, nella realtà, nel mezzo di guerre e occupazioni, ci sono due forze propulsive che spingono a lottare e a tirare avanti: l’idealismo e l’istinto di sopravvivenza, che tentano di soffocarsi ripetutamente l’uno con l’altro, e spesso è quest’ultimo ad avere la meglio.
Validità storica
“Eyes of Dawn”, per tutti i motivi appena citati, fece parlare di sé molto a lungo, sia nel bene, sia nel male, ma la questione si espanse anche al di fuori degli argini più facilmente individuabili, tanto fu l’impatto dell’opera sulla popolazione: ad esempio, alcuni licei coreani ne consigliarono la visione e altri richiesero alla MBC delle registrazioni del drama apposite, che fungessero da materiale didattico. D’altronde chi l’ha detto che per insegnare e imparare la storia siano validi solo i metodi più classici come la lezione frontale o la visione di veri e propri documentari?
Si può supporre che ciò avvenne per due motivi principali: l’accuratezza e la ricercatezza storica del drama, per cui gli insegnanti non avranno avvertito rischi di informazioni fasulle, e anche il fatto che di certi argomenti (come appunto le donne di conforto) non ne parlava e non ne parla ancora nessun libro di testo coreano.
Pertanto non è sbagliato dire che tutto ciò che i sudcoreani sanno riguardo questo tema derivi da “Eyes of Dawn”, dai film che sono venuti dopo, e ovviamente, non ultimo, dalle testimonianze delle donne sopravvissute (e dall’attivismo e la sensibilizzazione a cui le stesse hanno dato vita nel corso degli anni successivi).
Ma “Eyes of Dawn” non fu solamente la prima produzione (in senso di drama, film o documentario) a parlare delle donne di conforto, fu anche la prima a raccontare del già citato massacro di Jeju.
Grazie a ciò, dopo la messa in onda degli episodi del drama in cui si mostrava tale atrocità, molti abitanti dell’isola chiamarono la sede della MBC, ringraziando per aver dato finalmente luce al dolore di quel luogo, dolore rimasto per anni sconosciuto ai più.
Anche il fatto che nel percorso intrapreso dai nostri protagonisti e dai secondari si sia fatto modo di intrecciare la loro strada con svariati personaggi che hanno realmente preso parte alle vicende di quegli anni, fa comprendere quanta importanza sia stata data alla contestualizzazione storica. Questo va a implementare e amplificare il concetto che la storia siamo tutti noi, non è qualcosa che si consuma solamente tra i grandi poteri, le grandi personalità, i grandi eventi, perché questi ultimi e la gente comune sono un tutt’uno sempre ben amalgamato e difficilmente scindibile.
Dopodiché, considerando appunto che la storia è un contenitore finito che contiene infiniti particolari, se si vuole andare a cercare il pelo nell’uovo, è pressoché ovvio che ci siano delle piccole incongruenze nella descrizione dei fatti reali (sicuramente anche per esigenze di sceneggiatura), tuttavia sono talmente poche e di scarsa rilevanza che l’affidabilità e la credibilità generali dell’opera non ne vengono minimamente minate
Le “donne di conforto”
Perché ho deciso di utilizzare la dicitura “donne di conforto” fra virgolette? Nonostante da noi le si chiami così, se ci si pensa un minimo, il termine in sé appare come un’antifrasi: considerando che le ragazze/donne obbligate a tale scempio venivano violentate quasi senza sosta anche fino a venti volte al giorno e che oltre al sesso forzato venivano spesso anche picchiate, seviziate e via dicendo (quando non si ammalavano in conseguenza alle scarse condizioni igieniche e all’indebolimento completo del corpo), utilizzare il vocabolo “conforto” sembra stridere come delle unghie su una lavagna. Proprio per questo in Corea del Sud, quando se ne parla, non viene quasi mai utilizzato il solo termine “donne di conforto”, ma lo si accompagna a “… dei militari giapponesi”, proprio a sottolineare che il conforto (se così umanamente lo si può chiamare) era per i soli giapponesi, che sfruttavano questo sistema per mantenere alto l’umore del proprio esercito, e mitigare e sfogare le frustrazioni e le repressioni nate dalla situazione generale (e non ultimo, assicurandosi che i rapporti avvenissero con i contraccettivi, per evitare l’espandersi incontenibile di malattie veneree tra i soldati, che li avrebbe indeboliti e quindi resi inadatti al ruolo).

Come spesso accade per tragedie di massa avvenute durante colonialismi, dittature e guerre, anche quella delle “donne di conforto” ha impiegato molto tempo per venire a galla e per essere discussa apertamente, per far sì che la vergogna con cui le sopravvissute avevano convissuto per tutta la vita fosse meno violenta della sete di giustizia per ciò che avevano subito (vergogna da cui in molti casi si sono fatte sopraffare, decidendo così di non tornare a casa anche dopo la fine della guerra, di prostituirsi e, non ultimo, di suicidarsi). Infatti solamente il 14 agosto 1991 (“Eyes of Dawn” andò in onda appena un mese e mezzo dopo), ci fu la prima testimonianza diretta sulla questione: Kim Hak-soon descrisse scrupolosamente, e con il dovuto orrore, cosa le accadde da quando, a malapena 17enne, fu portata in Cina in una così detta “stazione di conforto”. Tutto ciò diede una forte spinta alla curiosità nei confronti del drama, e certamente gli donò maggiore credibilità e spessore.

Parlando del fenomeno in rapporto all’opera, si viene catapultati subito nell’argomento: come prima scena la serie sceglie sapientemente (e coraggiosamente) di mostrare il trasporto di molte donne coreane su di un treno, all’interno del quale vediamo anche la nostra protagonista. Se lì per lì ci si domanda cosa stia accadendo, lo si capisce appena pochi minuti dopo l’inizio dell’episodio, quando Yeo-ok viene violentata e picchiata da un ufficiale giapponese.
E’ così che, senza andare per gradi o fare introduzioni particolari, la storia impronta fin dall’inizio l’andamento tragico e drammatico che si protrarrà per gran parte della serie (ci sono alcuni momenti più “leggeri”, tuttavia sono una netta minoranza).
Dato che praticamente fu la prima volta che questo argomento veniva affrontato così in larga scala e quindi pubblicamente (importante ricordare che fino a quattro anni prima in Corea del Sud c’era ancora la dittatura), credo sia stato voluto e fondamentale un punto di vista anche storico, oltre che romanzato, con una narrazione a tratti asettica e metodica.
Più che altro mi riferisco all’inserimento di filmati d’epoca, alla presenza di note per descrivere date, luoghi o personaggi realmente esistiti, e alla spiegazione didascalica presente nei punti nevralgici della storia, per cui una chiarificazione di altro tipo sarebbe risultata poco nitida o forzata.
Con questo non voglio lasciar intendere che la sceneggiatura risulti improntata su uno stile documentaristico e impersonale, tutt’altro. In realtà quando ripenso alla serie nel suo complesso, la prima sensazione che mi viene spontanea è quella di un forte attaccamento ai personaggi e alle loro vicende, un senso di empatia nei loro confronti, considerati tutti i risvolti del caso. Questo perché l’opera è carica di momenti di pathos creati da scelte registiche mirate, da musiche arrangiate e inserite ad hoc, da dialoghi carichi di idealismo emotivo e individuale, oltre che politico. I personaggi prendono vita, lo spettatore sperimenta con loro tutte le difficoltà e le vicissitudini che incontrano durante il (faticoso) cammino.

Tuttavia, come dicevo poc’anzi, “Eyes of Dawn” si è trovato a dover spiegare al proprio popolo una parte della storia del paese che, nonostante fosse stata vissuta in prima persona da molti ancora in vita, era stato fin dall’inizio qualcosa di cui non si doveva parlare e che per questo si stava dimenticando nella memoria collettiva, o che addirittura non si era mai saputa: non mi riferisco solamente alle “donne di conforto”, ma anche alle innumerevoli tragedie quotidiane e a tutte le complesse dinamiche degli anni di occupazione giapponese e della guerra di Corea.
Per questo il ruolo della serie è stato vitale nella presa di coscienza popolare su certe questioni, e di conseguenza i personaggi non si sono caricati solamente dell’interpretazione della loro vita in quanto singoli individui, ma di qualcosa di molto più vasto, come le condizioni sociali ed esistenziali, e le posizioni politiche dell’epoca.
La grandezza e l’unicità della serie sta proprio nell’aver fatto da lezione storica a chi non era a conoscenza degli avvenimenti passati, e allo stesso tempo aver donato l’emozionalità romanzata di una serie televisiva, che è l’elemento che riesce a far rimanere incollato la spettatore allo schermo.
P.S. : le donne sudcoreane che si fecero avanti con le loro testimonianze furono 238, tuttavia ad oggi sono rimaste solamente in nove. Avendo ora tutte oltre i novanta anni (o giù di lì), negli ultimi otto anni ne sono morte una quarantina, e quelle che rimangono sicuramente non vivranno ancora per molti anni, purtroppo. Pertanto si percepisce ancora più forte l’urgenza di passare alle nuove generazioni la memoria di ciò che è stato, perché saranno loro a poterla mantenere viva, lottando per essa, e trasmettendola a chi verrà dopo di loro.
A questo riguardo vorrei segnalare una lettura imprescindibile per chi vuole saperne di più sull’argomento: mi riferisco al grapich novel “Le malerbe” (pubblicato in Italia dalla Bao Publishing e acquistabile qui), dell’autrice sudcoreana Keum Suk Gendry-kim, da sempre impegnata con le sue opere a livello sociopolitico.

Il romanzo grafico (del 2019) racconta la testimonianza diretta di una delle sopravvissute (una delle nove ancora in vita), Yi Ok-seon halmoni. Questo termine (halmoni) in coreano vuol significare “nonna/donna anziana”, ma nel caso delle “donne di conforto” viene utilizzato di fianco al loro nome non solo per indicarne la fascia d’età, bensì per sottolineare la volontà popolare di farle diventare le nonne di tutta la Corea del Sud, in modo che ogni cittadino si faccia carico di loro, della loro storia e del loro dolore.
Comparto tecnico, tempistiche e spese di produzione
La prima cosa che mi è saltata all’occhio della serie è stata proprio la qualità tecnica, perché sul piano della regia e della fotografia, l’impatto è pressoché immediato e si intuisce subito se ci si trova di fronte a un prodotto scadente o meno. In “Eyes of Dawn” il livello è pari a quello cinematografico: dalle scenografie ai costumi, dalle luci alle inquadrature, ogni elemento tecnico si colloca senza fatica in cima a una eventuale scala di valutazione.
Tuttavia, come si può facilmente immaginare, la maniacale attenzione a ogni particolare non è stata cosa gratuita: infatti, in termini di tempistiche, di fattibilità pratica (basti pensare che il drama è stato girato anche nelle Filippine e in Cina, con cui la Corea del Sud non aveva ancora ristabilito i rapporti) e di spese, è stato un drama di proporzioni bibliche.
Riguardo l’ultimo punto, non è che oggi non vengano investite quantità enormi di denaro per produrre le serie (anzi, i budget stanno aumentando sempre di più, avendo ormai alle spalle anche colossi come Netflix e Disney), tuttavia se contestualizziamo il momento sociopolitico ed economico dell’epoca, il fatto che in quegli anni le produzione coreane andassero solamente nel loro paese o poco di più, e che l’argomento poteva risultare molto spinoso e pertanto la sua visione venire ostracizzata, ci si rende subito conto che l’elevatissimo investimento (di denaro e di forze) in quest’opera è stato un azzardo e una scommessa (poi pienamente ripagate). Nello specifico, calcolando il costo con il valore della moneta coreana attuale, la stima della spesa si aggira intorno a 21 miliardi e 259 milioni di won, cioè poco più di 15 milioni di euro.
Come dicevo all’inizio, la serie fu pensata per festeggiare il trentennale della MBC, che cadeva nel 1991. Il regista, per essere sicuro di riuscire a produrre il drama con la dovuta calma e scrupolosità, ha dato il via alla programmazione nell’89, e alle riprese nel maggio del ’90, che terminarono poi effettivamente nel ’91, anno della messa in onda.
Ma come si sa, il lavoro su un drama non termina con la fine delle riprese, soprattutto per prodotti come “Eyes of Dawn” che si calcola essere l’ultimo drama coreano ad aver utilizzato il doppiaggio su quasi ogni girato in esterna. Infatti l’ultima scena del drama è stata finita di montare appena dieci minuti prima della messa in onda dell’ultimo episodio.
In pratica dall’inizio della pianificazione, alla fine della produzione, “Eyes of Dawn” ha tenuto impegnato lo staff per ben due anni e quattro mesi, tempistica a oggi forse improponibile per svariati motivi (ad esempio, l’impegno di staff e attori per tutto questo tempo su un’unica produzione, con i costi e il numero dei drama in uscita ogni anno che sono lievitati vertiginosamente).
Cast
Riguardo questo aspetto, c’è un dato davvero impressionante: per girare il drama si sono serviti di migliaia di comparse, se ne contarono tra le 21.000 e le 27.000 (l’ultima cifra è la più accreditata, e sembra essere suddivisa in 20.000 coreani, 5.000 cinesi e 2.000 filippini). Ma il numero non è alto solo riguardo le comparse: se si getta uno sguardo al cast principale, secondario e di supporto, ci si rende conto di quanti nomi oggi noti abbiano donato il loro contributo attoriale alla serie.
A partire dai veterani, fino ad arrivare ai più giovani e alle prime armi, il cast di “Eyes of Dawn” può essere considerato tra i più ricchi in assoluto.

Partirei analizzando i tre protagonisti:
Chae Shi-ra (che interpreta Yoon Yeo-ok) con questo drama si trova alla sua quarta esperienza seriale (la terza come protagonista), ma è proprio grazie a “Eyes of Dawn” che riesce ad affermarsi completamente.
Percorso molto simile riguardo la serialità per Choi Jae-sung (che interpreta Choi Dae-chi), che condivide con Choi Shi-ra non solo il numero di drama già girati, ma anche il primo progetto in assoluto, il drama “Gogyosaeng Ilgi” (1983), in cui entrambi sono nel cast principale. L’unica differenza tra i due è che Choi Jae-sung, ai tempi di “Eyes of Dawn”, era già piuttosto conosciuto per due suoi ruoli, uno in un film (“Lee Jang Ho’s Baseball Team”, 1986, diventato poi un classico della cinematografia coreana), l’altro in un drama (“The Tree Blooming with Love”, 1987).
Diverso è stato per Park Sang-won (che interpreta Jang Ha-rim) che, nonostante avesse quasi dieci anni in più degli altri due protagonisti, era “solo” al suo terzo drama, secondo come protagonista (suddetta serie,“Human Market”, è sempre dello stesso regista e della stessa scrittrice di “Eyes of Dawn”). La cosa peculiare di questo attore però è che, nonostante forse abbia avviato la sua carriera un po’ in ritardo, è poi diventato uno delle presenze simbolo dei drama coreani degli anni Novanta: basti pensare al fatto straordinario che nella classifica dei drama che hanno registrato gli ascolti più alti (da non confondere con la media di ascolti, qui si parla di rating per singolo episodio), quattro dei top 10 abbiano lui come protagonista. I drama in questione sono, in ordine di uscita, proprio “Eyes of Dawn” (1991, e vedremo i dati nei paragrafi successivi), “Sandglass“ (1996, stesso regista e stessa sceneggiatrice del precedente), “First Love“ (1996) e “You and I“ (1997). Pertanto, o dopo il successo di “Eyes of Dawn” e la sua eccellente prova attoriale, Park Sang-won ha continuato a scegliersi bene i progetti a cui partecipare, oppure il motivo per cui quei drama hanno avuto così tanto successo è dovuto (almeno in parte) alla sua presenza.
Oltre ai principali, è bene nominare altri volti noti del cinema e delle serie coreane: ad esempio, nei primi episodi, vediamo tra il cast secondario l’attore veterano Park In-hwan, che molti oggi ricorderanno per aver interpretato il padre della protagonista nel poetico slice of life “Lost” del 2021 (anche conosciuto come “Human Disqualification”) e il toccante drama sul balletto del 2021, “Navillera“ (in cui l’altro attore protagonista è Song Kang), che racconta la storia di un signore nella fase della terza età che vuole realizzare il suo sogno di una vita, quello di imparare la danza classica, e per farlo chiederà aiuto a un promettente e giovane studente.
Poi abbiamo Go Hyun-jung, seconda classificata di Miss Korea del 1989, che debutta come attrice proprio con “Eyes of Dawn” e che, grazie ad esso, afferma e stabilizza la sua carriera, ricevendo da subito offerte per parti principali: a oggi, si lascia alle spalle ben 16 serie dove interpreta la protagonista, dato piuttosto impressionante se si pensa che ha solamente 52 anni e che per ben dieci si è ritirata dalle scene. Di questa lunga lista, come suo quinto progetto, fa parte il già citato “Sandglass”, in cui si è ritrovata proprio con Park Sang-won, e un altro che mi preme citare (perché uno dei miei drama preferiti), cioè “Dear My Friend“ del 2016 (qui la mia recensione al drama).
Tra i tanti nomi, ci tengo a fare una menzione in particolare, nonostante la sua parte nel drama sia piuttosto marginale: mi riferisco a una giovanissima Jeon Mi-seon, attrice che poi si è largamente affermata, e che personalmente ho avuto modo di apprezzare con ruoli di supporto in vari drama. Purtroppo si è tolta la vita nel 2019, a soli 48 anni (non nascondo che la notizia mi ha amareggiata, mi piaceva davvero molto).
Dopodiché possiamo vedere, in parti più o meno secondarie, Jung Dong-hwan, Lee Jung-gil, Park Geun-Hyung, Choi Bool-am, Kim Myung-soo e tanti tanti altri: come dicevo prima, il cast è numerosissimo, quindi impossibile da elencare tutto.
Rating di ascolti, premi vinti e adattamenti
“Eyes of Dawn” è stato un successo straordinario su tutti i fronti. Sul piano degli ascolti si registrano numeri impressionanti: con un picco del 58,4%, la sua media fu un altissimo 44,3%.
Quindi non è solo uno dei drama più visti di sempre, ma la serie, il cast e lo staff tecnico hanno fatto incetta di premi a svariate cerimonie dell’epoca.
Agli MBC Drama Awards del 1991, Choi Jae-seong e Chae Shi-ra vinsero, rispettivamente, il Premio come Miglior Attore in un Drama e il Premio come Miglior Attrice in un Drama.
Al 28° Baeksang Arts Awards (del 1992), per la Categoria TV, il regista Kim Jong-hak vinse il Premio per la Miglior Regia, e il drama si aggiudicò l’ambito Daesang (Gran Premio) e il Premio per la Miglior Fotografia. Anche qui la prova attoriale di Choi Jae-seong e Chae Shi-ra venne riconosciuta a pieno titolo e si aggiudicarono rispettivamente il Premio come Miglior Attore e Miglior Attrice, mentre Park Sang-won vinse il Premio di Popolarità Maschile.
Ai 19° Korean Broadcasting Awards (del 1992) il drama vinse di nuovo il Premio per la Miglior Fotografia nella Categoria Drama per la TV e il regista venne premiato questa volta come Miglior Produttore.
In ultimo, nel 1993, ai Producers Association Awards, la serie vinse il Premio come Miglior Drama.

Un altro dato, anche se non sarebbe necessario, per far ben comprendere l’impatto che ha avuto e che ha ancora oggi il drama, nonostante siano passati più di trent’anni, è che nel 2020 sono stati adattati da esso un musical e un webtoon. Durante il corso degli anni si è parlato spesso anche di un remake seriale, tuttavia, data l’importanza dell’opera per la popolazione e dato che il confronto sarebbe stato troppo diretto (laddove il musical e il webtoon sono due media completamente differenti), nessun regista e nessuno scrittore si è mai preso la responsabilità di toccare una colonna portante del proprio paese e della propria cultura
Opinione pubblica e della critica
Una serie come “Eyes of Dawn”, che ha preso dei tori giganteschi per le corna e li ha combattuti sotto gli occhi di tutti, è un’opera che ovviamente ha suscitato le reazioni più svariate, non sempre positive. Il drama dovette affrontare, oltre alle infinite lodi, anche svariate critiche: ad esempio, la scena di un bacio che avviene tra due dei protagonisti, chiamato “il bacio del filo spinato”, rimane ancora oggi tra i baci in assoluto più memorabili della tv coreana, un po’ perché la scena in sé è sicuramente molto emozionante, poiché simbolo di un amore tormentato e impossibile, ma anche perché all’epoca creò molto clamore il fatto stesso di mostrare dei baci in televisione, soprattutto in una serie (la cosa non era per nulla usuale).

Tuttavia questa fu tra le critiche minori: le reazioni più contrariate arrivarono a causa di una scena che vede protagonista Choi Dae-chi, in cui il ragazzo strappa a morsi un serpente vivo e se lo mangia. Peculiare il fatto che l’animale era vero e l’attore si fece insegnare come mangiare a morsi un serpente crudo (non c’è da meravigliarsi del maltrattamento, poiché all’epoca non c’era per nulla sensibilità sull’argomento). In più, per riportare con fedeltà la sensazione di fame cieca in cui era il personaggio, l’attore digiunò per circa tre giorni, forse anche perché era l’unica condizione fisica e piscologica in cui avrebbe avuto il coraggio di girare una scena tanto forte. A tal proposito, voci di corridoio (quindi da prendere con le pinze) dicono che si sia sentito male subito dopo.
Ci fu anche una questione legata a un arco narrativo specifico all’inizio del drama: in questi episodi vediamo Ha-rim che (non per sua volontà, ma obbligato dai giapponesi) prende parte a degli esperimenti sugli umani per creare armi biologiche di massa.
Insomma, per questi esempi e anche per altre situazioni analoghe riportate nel drama, la popolazione si chiese se fosse davvero adatto far entrare nelle case scene così forti e violente (anche psicologicamente parlando).
In ultimo, ma non per importanza e impatto sociale, le critiche arrivarono anche sul piano politico: d’altronde non ci si poteva aspettare che un’opera che ha reso centrale nella sua narrazione questioni politiche fondanti per il proprio paese, potesse uscire inerme da giudizi provenienti da ogni parte.
Ad esempio, i militanti di sinistra contestarono il fatto che la questione delle “donne di conforto” apparisse troppo romanticizzata, mentre quelli di destra il fatto che in alcuni punti della storia i partigiani fossero stati messi in buona luce, mentre l’immagine della polizia non ne usciva pulita. Tuttavia questo fermento non fa che confermare l’imparzialità dell’opera che da un lato è stata vista male per un motivo e dall’altro per l’esatto opposto.
Sebbene sia quindi vero che la serie, all’epoca della sua uscita, abbia dovuto affrontare richiami di vario tipo da ogni fronte, è altrettanto vero che a oggi rimane il drama per eccellenza nei cuori e nella memoria dei sudcoreani: persino il finale è tutt’ora considerato uno dei finali più belli ed emozionanti di sempre.
Romanzo originale
Il drama nasce dal romanzo omonimo scritto da Kim Seongjong e pubblicato dal 1975 al 1981 sul giornale Daily Sports.
I racconti considerati osceni ed erotici, all’epoca venivano pubblicati solo dai quotidiani sportivi, ecco perché anche “Eyes of Dawn” venne pubblicato lì: l’opera, in effetti, a differenza del drama, ha uno stampo nettamente erotico, e sessualmente provocatorio e violento.

Per questo, ciò che nel ’75 fu pubblicato sul giornale integralmente, e quindi senza l’ombra di censura, non ebbe la stessa sorte con la versione del 1982, in cui la storia fu raccolta in 10 volumi: in questo caso le scene ritenute più indecenti e immorali vennero eliminate. Molte di queste videro di nuovo la luce solo dopo l’uscita del drama, con una riedizione dello scritto (e grazie all’uscita del paese dalla dittatura, senza dubbio).
Quello che trapela dalle recensioni che si trovano sul web è che i lettori abbiano trovato il romanzo troppo spesso violento in maniera estrema e gratuita. Pertanto, pur non avendolo letto in prima persona, mi sono più o meno fatta un’idea di come possa essere la storia originale, e quello che mi viene da pensare è che sia stato un bene che il drama abbia preso un po’ le distanze dall’eccessiva brutalità e cattiveria del romanzo.
Attenzione, non dico questo perché trovo fuori luogo mostrare una realtà aggressiva e trucolenta, infatti il drama non manca di crudeltà, tuttavia la brutalità descritta non è mai completamente priva di senso e di spiegazione. Ciò rende il tutto talmente ben stratificato nella caratterizzazione dei personaggi, che ho il presentimento che una narrazione esagerata avrebbe appiattito questo aspetto, e che quindi si sarebbe perso parte del significato della serie e della sua complessità.
Per concludere, oltre agli aspetti già affrontati, c’è una questione che mi sono posta quando ho saputo dell’esistenza del romanzo: “perché la popolazione si acculturò riguardo le donne di conforto e altre questioni storiche solamente con l’arrivo del drama, dato che l’opera originale risale ad almeno quindici anni prima?”. Le motivazioni possono essere svariate: in primis, una serie tv ha un bacino d’utenza superiore a quello di un’opera letteraria. In secondo luogo, nel 1975 non c’era ancora stata nessuna testimonianza diretta. Il terzo motivo potrebbe essere l’epoca: il romanzo uscì a metà degli anni Settanta, e poi ancora nel 1982, in piena dittatura, quindi dubito che un’opera forte e violenta come “Eyes of Dawn” potesse avere chissà quanta pubblicità o possibilità di successo, mentre il drama, uscito dopo la fine del regime, ha goduto senz’altro di molta più libertà.
Note sul regista
La cosa a cui non ho accennato prima (volutamente) quando ho presentato il regista, Kim Jong-hak, è che purtroppo il 23 luglio del 2013, a soli 61 anni, si è tolto la vita.

L’estremo gesto si presume sia derivato dalle indagini in corso all’epoca, che lo vedevano accusato di frode, appropriazione indebita (per circa 7 miliardi di won, oltre 5 milioni di euro odierni) e negligenza professionale: la causa fu avviata dallo staff dell’ultimo drama che aveva diretto, il già citato “Faith”, e il motivo che li spinse a tale gesto fu il fatto che non gli erano stati percepiti gli stipendi per un totale di 640 milioni di won (circa 580mila euro odierni).
Durante il processo si dichiarò sempre innocente e alcune fonti riportano che si professò tale anche nella nota di suicidio di quattro pagine che lasciò alla famiglia, in cui sottolineava di essere stato accusato ingiustamente e incolpava il pubblico ministero di giustizialismo e protagonismo.
Purtroppo non sarà mai possibile svelare la verità, dato che il processo venne chiuso con la sua morte, tuttavia, a prescindere dalla sua eventuale colpevolezza, credo che nessuno potrà mai negare che sia stato il più importante regista di k-drama della storia, per l’effettiva bellezza di molte delle sue opere e per l’impatto culturale che ha avuto sul suo paese.
Musiche
Quella di “Eyes of Dawn” è una colonna sonora quasi interamente elettronica, che mescola musica ambient e simulazioni delle più tipiche musiche orchestrali di taglio cinematografico, attraversando le atmosfere più disparate: romanticismo e dramma, ma anche momenti epici, ariosi e di ampio respiro.
Il compositore è Choi Kyun-sik, che lavorerà con il regista anche per il drama successivo, “Sandglass”, altro enorme successo di pubblico (basti pensare al fatto che molti studenti e lavoratori uscivano prima da scuola e da lavoro per poter guardare la serie in tv nei giorni della messa in onda).
L’OST di “Eyes of Dawn” suscitò un tale interesse che per la prima volta in Corea del Sud venne pubblicata la colonna sonora di un film o di un drama per conto suo, dato che di solito i brani principali uscivano all’interno degli album dei relativi cantanti e le parti strumentali non trovavano sbocco discografico.
Questo interesse si tradusse in un grande successo commerciale: si contarono oltre 400.000 copie vendute.
C’è tuttavia un fatto che non fa molto onore né al compositore, né alla MBC, e cioè che sia il brano d’apertura, sia quello di chiusura del drama sono stati (giustamente) accusati di plagio. Purtroppo nessuno dei due casi lascia spazio a negazioni di alcun tipo: soprattutto il brano di chiusura, è identico all’originale.
Di seguito lascio i link ai quattro brani:
Brano d’apertura di “Eyes of Dawn”
Brano originale di Angelo Badalamenti, nonché colonna sonora del film “Cugini” del 1989, diretto da Joel Schumacher
Brano di chiusura di “Eyes of Dawn”
Brano originale di Pino Donaggio, nonché colonna sonora del film “Vestito per uccidere” del 1980, diretto da Brian De Palma
Come accennavo poc’anzi, e come avrete sentito voi stessi, c’è ben poco da smentire, le somiglianze sono talmente evidenti da essere imbarazzanti. Tuttavia il caso tra i due che suscitò più clamore, forse perché non ci fu nemmeno lo sforzo di cambiare qualche nota, fu quello del brano di chiusura. Ne conseguì che, nonostante l’immenso successo della colonna sonora, non venne mai più utilizzato per nessun altro scopo, che fosse pubblicità o quant’altro.
Reperibilità del drama
Purtroppo gli episodi sono (al momento) praticamente introvabili con i sottotitoli. Io ho avuto l’immensa fortuna di aver ricevuto un invito privato a un sito di quelli “chiusi”, da cui ho potuto scaricare l’intera serie sottotitolata in inglese, tuttavia prima di ciò l’avevo cercata per più di un anno nell’intero internet e non ne avevo mai trovato nemmeno una traccia.
In realtà, per essere precisi, la serie è caricata sul canale YouTube della MBC (canale di produzione del drama), tuttavia non è dotata di sottotitoli, così può essere fruibile solamente dai coreani o da chi conosce la lingua. Ci sono dei commenti sotto i video degli episodi in cui utenti esteri richiedono i sottotitoli in inglese, ma fino ad ora sembrano richieste cadute nel vuoto. La cosa che mi è poco comprensibile è il perché non abbiano approfittato dei sottotitoli in inglese presenti nell’edizione speciale in dvd fatta uscire per il trentennale della serie (avvenuto due anni fa), per caricarli anche sul canale. Può essere comprensibile che lì per lì dovessero pensare alla vendita dei dvd, tuttavia al momento è un cofanetto introvabile andato fuori catalogo in ogni sito, quindi non ne venderebbero più a prescindere.
Fatto sta che riuscire a trovare quest’opera è una botta di fortuna non indifferente, e in effetti, diversamente da altre mie recensioni che puntano all’invogliare alla visione della serie di turno, in questo caso ho voluto parlare di “Eyes of Dawn” perché innanzitutto trovo importante che ogni appassionato di drama ne conosca l’esistenza e sappia quanto rilevante sia stata e sia tutt’ora per la Corea del Sud, a prescindere dal fatto che riuscirà a vederla o meno (vi auguro comunque di riuscirci prima o poi).
Credo che il bello della passione per qualcosa sia anche questo: quando si riesce a trovare qualcosa di raro grazie alle continue ricerche (e a una fortuna discreta), è una grande soddisfazione.
Quindi per me poter godere della serie coreana più importanti di tutti i tempi dopo aver fatto tanta fatica per trovarla, è stata una vera emozione, quasi come se me la fossi dovuta meritare e conquistare.
Avendola vista con mio fratello, abbiamo impiegato circa 8 mesi per finirla, e posso dire che, nonostante solitamente mi definisca io stessa una “divoratrice” di drama, sono stata felice di aver goduto della compagnia dei suoi personaggi per tanto a lungo (nonostante l’atmosfera poco serena della storia).
FONTI
Oltre ai link ipertestuali che si trovano nel corpo dell’articolo, segnalo che per le ricerche ho attinto dagli archivi dei giornali “New York Times“, “MetroSeoul“, e “MLB Park“, delle riviste “The Kraze“, “Korea“, “MWave“, “KPopStarz“, da Wikipedia (inglese e coreana), dal sito “Namu Wiki“, e dai blog “Blog.Naver” e “Unmin.Tistory“.

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