Eccoci arrivati alla seconda lista di thriller (per chi fosse interessato, qui l’accesso alla prima).
Dalle serie che si giocano il tutto per tutto sul cliffhanger (espediente che interrompe bruscamente la narrazione in corrispondenza di un colpo di scena o di un momento di forte suspense), a quelle che preferiscono un lavoro in sordina puntando molto su una tensione continua ma mai esagerata, il thriller è un genere che può facilmente risultare accattivante.
Personalmente parlando, è uno dei miei generi preferiti e ne ho visti davvero di tutti i tipi, per questo ho voluto fare una lista di quelli secondo me irrinunciabili, soprattutto se si è amanti del genere.
Note:
1) Avendone molti da consigliare, ho deciso di dividere la lista in più parti.
2) La lista non è una classifica, pertanto non sono in ordine di preferenza.
Koori no sekai – Ice World

“Koori no sekai – Ice World” è un thriller psicologico giapponese con risvolti romance, composto da 11 episodi di circa 45 minuti l’uno, e risalente al “lontano” 1999.
INCIPIT: il nostro protagonista è Eiki Hirokawa, un investigatore assicurativo. Si trova a indagare su un caso di presunto incidente in cui è rimasta vittima una giovane donna che era professoressa in una scuola femminile privata. Questo caso porterà Eiki a fare la conoscenza di Egi Touko, una ragazza terribilmente affascinante e misteriosa, il cui passato nasconde spaventose verità. Chi sarà davvero questa donna e quali saranno le sue colpe?
Questo drama è invecchiato incredibilmente bene: sembra sia stato creato appositamente per i posteri e per sfatare il mito che i prodotti più “stagionati” siano sinonimo di minor qualità, perché frutto di tecnologie ormai obsolete (mito ovviamente creato dalle nuove generazioni che per partito preso considerano le cose degli anni passati sempre e comunque meno evolute).
Non esulando dall’ottima qualità tecnica di tante serie nipponiche di quel decennio, la ritengo sicuramente tra le più belle: dalla colonna sonora al cast (i due protagonisti, Yutaka Takenouchi e Nanako Matsushima, stavano emergendo proprio in quegli anni, affermandosi poi come attori di punta fino ai giorni nostri), dalla regia alla fotografia, dalla recitazione ai dialoghi, ci troviamo di fronte a un’opera d’autore, di spiccata classe ed eleganza. Non per niente il drama nasce dalla penna dello sceneggiatore Hisashi Nozawa, anche scrittore di romanzi mistery, pluripremiato nel corso della sua (purtroppo breve) carriera: è stato ritrovato senza vita nel suo ufficio, morto per impiccagione, a soli 44 anni.
“Ice World” regala uno svolgimento della trama pressoché perfetto: non presenta buchi e il ritmo è incredibilmente incalzante, lasciando tuttavia ampio spazio sia ai personaggi (peculiari e di spessore), sia allo spettatore, di riflettere e ascoltarsi.
L’introspezione e la filosofia di cui è impregnata l’opera mi ha ricordato molto quella dei migliori anime anni ’90/primi 2000: è probabile che nell’arte giapponese di quel periodo si respirassero in maniera del tutto naturale certi filoni di pensieri e di espressioni.
È una storia che parla di umanità in tutte le sue sfaccettature: passione, vendetta, invidia cieca e folle, ma anche ricerca dell’amore vero, puro e assoluto, fiducia nel prossimo e in sé stessi, significato dell’amare e dell’essere amati. Questi sono solo alcuni degli aspetti della vita che vengono affrontati.
Ha tutto quello che si potrebbe volere da un racconto appartenente al genere: il lato mistery/thriller è complesso al punto giusto e il tutto non viene davvero svelato fino agli ultimi minuti dell’ultimo episodio.
Un’opera assai profonda e sentita, che merita la visione già solo per la totale onestà intellettuale e per la bellezza con cui certi concetti sono stati manifestati ed impressi su pellicola, la quale, anche per i molti aspetti tecnici già descritti, sembra quasi più appartenere al mondo della cinematografia piuttosto che a quello della serialità.
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In questo caso non ho trovato alcun trailer disponibile, quindi al suo posto ho messo la sigla di apertura, che secondo me già rende molto bene l’idea dell’atmosfera generale dell’opera.
King of Pigs

“King of Pigs” è un thriller/mistery coreano del 2018, composto da 12 episodi di circa 55 minuti l’uno. È l’adattamento del film omonimo d’animazione (sempre coreano) del 2011, scritto e diretto da Yeon Sang-ho (regista molto noto per il famosissimo film horror del 2016, “Train to Busan“).
Una curiosità sul film: è stato il primo lungometraggio d’animazione prodotto in Corea del Sud ad essere pensato e creato per un pubblico adulto. Insieme a “Leafie, A Hen into the Wild” (sempre dello stesso anno e di tutt’altro genere), ha contribuito a diffondere l’animazione coreana anche all’infuori dei propri confini.
INCIPIT: Hwang Kyung-min uccide sua moglie e sulla scena del crimine (casa sua), lascia un messaggio scritto su uno specchio diretto a una conoscenza di vecchia data, un compagno di scuola dei tempi delle medie, Jung Jong-suk, nel frattempo diventato detective.
A questo delitto ne seguiranno altri, ma qual è il movente che spinge Kyung-min a commettere questi crimini, anche molto efferati? E qual è il nesso tra lui, i crimini che sta commettendo, e il suo ex compagno di classe?
In una danza macabra tra passato e presente, “King of Pigs” dipinge una delle tragedie quotidiane che più affliggono la Corea del Sud, quella del bullismo scolastico. Quest’opera è molto ardua da digerire, è pura violenza, in tutti i sensi: sul piano emotivo, psicologico e fisico, i protagonisti sono sottoposti a continui soprusi e ingiustizie, che sfociano in vero e proprio accanimento. Sono presenti scene agghiaccianti, frustranti, avvilenti e molto tristi, che fanno male anche a distanza di tempo, e proprio per questo assolutamente funzionali allo scopo e al messaggio del drama stesso: la violenza scolastica non solo esiste, ma si è fatta ormai necessaria una presa di coscienza collettiva, e l’attuazione di piani di prevenzione e di gestione di tale fenomeno.
Perché tra persone segnate e traumatizzate a vita, suicidi sempre più frequenti, individui che non riescono a curare la depressione che spesso ne scaturisce e la sfogano anche nei modi più impensati, “King of Pigs” non è altro che la dimostrazione che la violenza non gestita e non presa in considerazione come tale, continuerà a fiorire rigogliosa e a far sbocciare solo nuova violenza (verso gli altri e verso sé stessi), spesso anche peggio di quella da cui è nata.
La prova attoriale del cast è superlativa e del tutto all’altezza del forte impatto che richiede e che regala l’opera. In particolar modo mi hanno colpito Kim Dong-wook e Choi Hyun-jin. Il primo mi ha completamente spiazzata, poiché lo avevo visto in una serie romance (“Find Me in Your Memory“) in cui ovviamente l’atmosfera era completamente diversa, mentre il secondo, il ragazzino che interpreta Kim Chul, più che spiazzata, mi ha completamente rapita e incantata: rispettivamente, non capita tutti i giorni né di godere di un attore così versatile e credibile, né di vedere un personaggio tanto complesso interpretato da un giovanissimo. Per entrambi ho trovato che la presenza scenica fosse a dir poco impressionante e, senza nulla togliere al resto del cast, loro due sono stati gli attori che secondo me hanno fatto davvero la differenza.
Se non vi ritenete abbastanza forti da reggere certi argomenti, allora vi consiglio di lasciar perdere. Al contrario, se pensate di potercela fare, nel suo genere questa serie è assolutamente imperdibile: una di quelle visioni che per me hanno segnato un prima e un dopo, che quando ci ripenso ancora sento una fitta al petto. L’intensità e la visceralità con cui certe scene sono state impresse sulla pellicola rimangono attaccate sulla pelle.
Insomma, “King of Pigs” è un connubio perfetto tra aspetti tecnici e contenuto, che portano a 12 ore di pura tensione.
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Circle

“Circle” è un thriller fantascientifico coreano del 2017, composto da 12 episodi di circa un’ora l’uno.
INCIPIT: la storia ha inizio nel 2007, quando la coppia di fratelli gemelli Kim Woo-jin e Kim Bum-gyun, insieme al padre neuroscienziato, assistono all’atterraggio di una navicella spaziale, da cui fuoriesce un aliena dalla sembianze umane. Da lì in poi se ne prenderanno cura, e la ragazza entrerà a far parte della famiglia, tanto che le daranno anche un nome, Byeol, che significa letteralmente “stella”. In seguito si arriva nel 2017: i due ragazzi sono 21enni e vanno all’università, luogo in cui stanno avvenendo una serie di strani suicidi. Woo-jin è convinto che suo fratello sia in qualche modo immischiato nella faccenda e inizia a indagare. A metà episodio però veniamo sbalzati in una realtà completamente diversa, quella di 20 anni più avanti: nel 2037 la Corea del Sud è divisa in due parti, la Normal Earth e la Smarth Earth (cioè Terra Normale e Terra Intelligente). La prima è un luogo inospitale in cui l’aria è diventata quasi del tutto irrespirabile, tanto che la gente gira con le maschere a gas, e la criminalità è arrivata alle stelle. La seconda, al contrario, è un luogo in cui la pace e la pulizia regnano sovrane e la criminalità non esiste. In questa stridente dualità troviamo Kim Joon-hyuk, un detective proveniente dalla Normal Earth, che per indagare sulla scomparsa di due gemelli avvenuta 20 anni prima (stiamo parlando dei gemelli che abbiamo visto nella prima parte) si infiltra nella Smarth Earth e inizia a investigare sul caso, scoprendo così una verità piuttosto agghiacciante sulla “città perfetta”, che tanto perfetta poi non è.
Questa serie ha più di un aspetto che la contraddistingue dalla massa e che la rende piuttosto unica: nell’incipit ho detto che a metà del primo episodio si viene sbalzati in avanti nel tempo, ma la cosa non riguarda solamente quel primo. Dei suoi 12 episodi, 11 sono divisi a metà: la prima mezz’ora di essi è ambientata nel 2017 (quando i due gemelli vanno all’università) ed è intitolata Beta Project, mentre l’altra nel 2037 e ha il nome di Grand New World. Così per quasi l’intera serie i due archi temporali sviluppano la loro storia parallelamente, e lo spettatore non viene investito, come a volte succede, dalla confusione riguardo il passato e il presente della storia, perché sono raccontati chiaramente e ben separati l’uno dall’altro. Solo alla fine le due parti e le due realtà si uniranno, dando all’episodio il titolo “Circle: One World“.
Sebbene questo aspetto del racconto parallelo mi abbia affascinata molto perché decisamente insolito, ovviamente non sarebbe bastato a farmela ritenere un’ottima serie, se la sua peculiarità fosse finita lì. Come dicevo prima, di particolarità questo drama ne ha diverse, anche solo per il suo essere fantascientifico e futuristico. Dopo essermi lasciata più di 550 drama alle spalle, posso affermare che sono veramente molto, molto rare le serie asiatiche che hanno trattato questi generi (soprattutto il futuristico), credo si possano contare sulle dita di una mano.
Ovviamente, oltre questi aspetti più distintivi e caratteristici, ci sono anche altri lati più “classici” a donare spessore all’opera: un’ottima sceneggiatura, accattivante perché piena di misteri da svelare, dal ritmo incalzante, molto profonda e riflessiva, visto che i temi affrontati sono di rilevanza etica e sono aspetti dell’evoluzione tecnologica/scientifica su cui l’uomo dibatte da decenni.
Riguardo il cast, potrei essere di parte, perché stravedo per Yeo Jin-goo, è uno dei miei attori coreani preferiti: ho visto molti dei suoi drama e lo trovo sempre straordinario, anche nel ruolo apparentemente più semplice. In più adoro anche Gong Seung Yeon (attrice molto versatile, ma poco considerata dalla maggioranza, almeno qui in Italia). Come ciliegina sulla torta trovo che tra i due si sia creata un’ottima chimica, mi piacerebbe vederli di nuovo insieme in un altro progetto.
“Circle” è una serie perfetta per chi ama le storie di cui non si capisce l’insieme fino alla fine, e in cui c’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire e per cui rimanere sorpresi. E ovviamente per gli appassionati della fantascienza che sono più abituati ai prodotti occidentali, perché può essere un’esperienza diversa dal solito.
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365: Repeat the Years

“365: Repeat the Year” è un mistery thriller coreano di stampo fantascientifico del 2020, composto da 24 episodi di circa 30 minuti l’uno.
INCIPIT: Ji Hyung-joo è un detective molto devoto al suo lavoro e che ritiene di fondamentale importanza il rapporto con i suoi colleghi. Proprio per questo, quando il suo compagno di squadra viene ucciso in servizio, cade in una profonda depressione, anche per il forte senso di colpa per non essere arrivato in tempo e non essere riuscito a impedire la tragedia, avvenuta come vendetta nei suoi confronti. Shin Ga-hyun è una famosa fumettista, autrice di un webtoon thriller di successo. A causa di un incidente rimane sulla sedia a rotelle e vive un periodo molto buio. Proprio nel momento peggiore di entrambi, gli arriva una misteriosa chiamata in cui gli verrà proposto di tornare indietro nel passato. Avendo vissuto tutti e due esperienze traumatiche, cosa sceglieranno di fare?
“365: Repeat the Years” fa comprendere dolorosamente bene quanto sia rischioso e brutale il “gioco dei se”. E se si potesse tornare indietro e fare quella cosa che si è solo ipotizzata? D’altronde chi non ci ha mai fantasticato sopra almeno una volta nella vita? Se si potesse cambiare il corso dell’evento negativo che più di tutti ha avuto impatto sulla propria vita? Con leggerezza si è spinti a pensare che modificando quell’unico avvenimento, allora saremmo salvi, eppure come si può avere la certezza che annullandolo, le cose andranno meglio? Come si fa a sapere quali saranno le conseguenze? E soprattutto, non ci chiediamo mai come reagiremmo nel sapere che l’aver cambiato le cose, non ha portato all’evoluzione sperata. Saremmo capaci di reggere il peso della responsabilità?
Ma questo drama non è intrigante e magnetico solo per questo aspetto, che fa nascere in maniera quasi naturale la curiosità: è perfettamente congegnato anche sull’aspetto del mero thriller.
Sicuramente è una di quelle serie che gioca molto sulla suspense e sa come tenere lo spettatore sul filo del rasoio, chiedendosi: chi e perché ha organizzato questi viaggi nel tempo? Cosa accadrà ogni volta che balzeranno nel passato? Chi sarà a rimetterci? Qual è la verità che si cela dietro a una serie di morti apparentemente casuali?
Un altro aspetto che mi ha tenuta incollata allo schermo è stato il ventaglio di personaggi (e l’ottimo cast che li interpreta) che via via ci viene data la possibilità di conoscere, e le dinamiche che si creano tra di loro: sono tutti peculiari e ben delineati, molto credibili, anche considerando le insolite situazioni in cui spesso si trovano. La loro evoluzione e la loro reazione agli avvenimenti del drama è sempre piuttosto imprevedibile, quindi molta dell’adrenalina è data dal fatto che non si capisca mai davvero dove andranno a parare e cosa faranno i personaggi.
Insomma, è uno splendido thriller, molto misterioso e affascinante, a tratti filosofico, soprattutto nel finale, dinamico e ben cadenzato negli eventi. Anche gli appassionati del genere fantascientifico e (soprattutto) dei viaggi nel tempo come me, possono dormire sonni tranquilli: la serie non delude nemmeno sotto quel punto di vista, essendo priva di incongruenze, buchi o contraddizioni di sorta.
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Life on Mars

“Life on Mars“ è un thriller/crime/investigativo di stampo mystery coreano del 2018, composto da 16 episodi di circa un’ora l’uno.
È il remake della serie britannica omonima del 2006, sempre composta da 16 episodi, tuttavia suddivisi in due stagioni.
INCIPIT: Han Tae-joo è a capo della sezione crimini e ha sempre impostato la sua carriera sull’importanza dei dati e delle prove certe. Un giorno, mentre sta indagando su un caso di omicidi seriali, viene colpito alla nuca, ma quando si risveglia si ritrova nell’inverno del 1988 (anno in cui la Corea del Sud, da poco liberatasi dalla dittatura, ha ospitato la XXIV Olimpiade). Senza capire e sapere nulla di ciò che gli è accaduto, si trova a fare il detective in una piccola stazione di polizia di un altrettanto piccola città. Cosa accadrà da questo momento in poi? Han Tae-joo si adatterà a questa vita 40 anni indietro nel tempo, in una Corea del Sud completamente diversa da quella che conosce lui? Riuscirà mai a tornare al suo presente? E perché è andato a finire in quell’epoca?
Svariate schede informative in giro per il web, inseriscono il genere fantascientifico e il tema dei viaggi nel tempo nella descrizione del drama: dato che questi due aspetti possono venir meno a seconda dell’interpretazione che si dà al finale all’opera (e sicuramente anche dall’influenza della serie originale), io ho scelto di non metterli affatto.
Forse sarà anche per questo che considero “Life on Mars” uno dei thriller più enigmatici e senza dubbio il più filosofico che abbia mai visto.
Sebbene la parte crime trovi le sue risposte e i casi si chiudano tutti, ciò che rimane più avvolto nel mistero è il senso generico dell’opera. O meglio, come dicevo prima, ha più di un’interpretazione e secondo me nessuna è più giusta delle altre. Nonostante questo aspetto potrebbe far storcere il naso, la cosa non è da confondere con un finale aperto: il fatto di poter dare più interpretazioni alla storia, è ciò che rimarca maggiormente il tratto filosofico della serie, perché una fine non è detto che debba per forza dare solo risposte, può anche porre delle domande in base a ciò che ha mostrato per tutti gli episodi, e lasciare che sia lo spettatore a dare una risposta.
Riguardo al cast, abbiamo come protagonisti una coppia assolutamente vincente, poi riproposta nell’altrettanto splendido “When the Devil Calls Your Name” (2019), cioè Jung Kyung Ho e Park Sung Woong, due attori di grandissimo calibro grazie alla loro estrema versatilità e imponente presenza scenica.
Una piccola curiosità sulle due versioni: il titolo della serie si rifà a un famosissimo brano di David Bowie, figura che, soprattutto negli anni ’70 (periodo in cui è ambientata la serie originale) è stata una vera e propria icona. Bowie fa insomma da sfondo alla serie, come per contestualizzarla al meglio. Nella versione coreana, invece di esserci le canzoni di Bowie, sono state utilizzate quelle del loro famosissimo cantautore rock Choi Yong-pil, che a sua volta è stata un’icona degli anni ’80 nel suo paese, proprio come Bowie lo fu soprattutto in Inghilterra. La cosa curiosa è che non abbiano cambiato il titolo, nonostante ovviamente la musica di Bowie non sia centrale in questa versione (a sorpresa, si sente “Life on Mars” solamente in un momento specifico del drama).
Si potrebbe supporre che questa scelta sia dipesa da ragioni logistiche e pratiche: d’altronde accade spesso che i remake portino lo stesso titolo dell’originale, proprio per richiamarlo.
In conclusione, se si è amanti delle trame chiare e nette, che pongono questioni a cui poi danno risposte, allora “Life on Mars” rischia di lasciare un senso di insoddisfazione, o peggio ancora, di frustrazione. Al contrario, se si è aperti e preparati a questioni a cui poter dare noi stessi una risposta, come accade con molte opere di stampo filosofico, in quel caso è una serie che secondo me rasenta la perfezione. Apprezzando opere di questo genere, e avendo interpretato il finale in un certo modo, ringrazio il fatto che non abbiano dato una conclusione netta e precisa alla storia, perché per quello che si è voluto esprimere per tutti e 16 gli episodi, si sarebbe rovinato il senso generale.
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Catch the Ghost

“Catch the Ghost“ è una commedia romantica di stampo thriller/mistery coreana del 2019 composto da 16 episodi di circa un’ora l’uno.
INCIPIT: due poliziotti si ritrovano a lavorare insieme. Lei, Yoo Ryung, è caparbia e con un fortissimo senso di giustizia, a causa del quale utilizza metodi non proprio convenzionali per catturare i criminali, mentre lui, Go Ji-suk, è uno molto ligio alle regole e che fa di tutto per non incappare in situazioni troppo pericolose o comunque fastidiose, come se sfuggisse in qualche modo dal proprio lavoro di poliziotto. Nonostante il suo atteggiamento remissivo, si troverà comunque a dover sistemare i guai causati dalla collega, spesso sconsiderata, ma dotata di un ottimo sesto senso, essenziale per risolvere i casi.
Diciamolo subito: “Catch the Ghost” non si può di sicuro considerare il capolavoro della vita, tuttavia è una boccata d’aria fresca per le atmosfere, le dinamiche tra i personaggi e la loro caratterizzazione: la prima parte è permeata da una spiccata vena comica (ci sono delle scene veramente esilaranti) che si calibra benissimo con la parte d’azione e thriller, ma man mano che la trama si infittisce e l’atmosfera si incupisce, questa comicità si perde quasi del tutto. Ricomparirà solo verso la fine quando le cose si saranno chiarite e sistemate. La cosa curiosa è che ho iniziato a notare questa variazione nei toni quasi a fine serie, perché il cambio di regime è talmente ben congegnato e graduale che non ci si fa caso: semplicemente si segue la storia scorrere verso il corso naturale delle cose.
Sebbene mi sia piaciuto molto anche la controparte maschile (interpretata da Kim Seon-ho), il personaggio su cui si regge il tutto è senza dubbio la protagonista (interpretata da Moon Geun-young): finalmente vediamo l’uomo che viene trascinato dalla donna e non l’inverso. Vediamo la donna coraggiosa e l’uomo pavido. Insomma, c’è un po’ un’inversione non dei ruoli, ma degli stereotipi indubbiamente sì.
Riguardo lo sviluppo della trama e gli omicidi seriali che fanno da colonna portante, sono presenti svariati colpi di scena, che non solo aiutano a tenere viva l’attenzione nei confronti della componente mistery, ma aiutano anche a capire e a conoscere i personaggi che pian piano prendono corpo all’interno della storia.
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Anche in questo caso non ho trovato un vero e proprio trailer, è giusto un teaser di pochi secondi, tuttavia sufficiente per intuire la dinamica frizzante tra i due.