“Le nostre ore felici”: romanzo, film e manga. Analisi e confronto fra le tre versioni

Come molti altri appassionati di serie asiatiche, anche io sono approdata in questo mondo grazie agli adattamenti live action di anime e manga, di cui ero amante da anni.

Quella di cui ho deciso di parlare questa volta è un’opera che ho particolarmente a cuore, “Le nostre ore felici” (traduzione letterale del titolo originale “우리들의 행복한 시간 / Urideur‑ui haengbokhan sigan”), che ho conosciuto leggendo l’adattamento manga, “Watashitachi no Shiawase na Jikan” (“私たちの幸せな時間”, 2007), disegnato dall’intensa e peculiare mano di Mizu Sahara e sceneggiato da Gong Ji-Young, scrittrice dell’omonima opera originale.
La storia narra l’avvicinamento, che inizialmente può apparire più uno scontro, tra due anime che si trovano agli antipodi per stili di vita e modi di vedere le cose, ma che in qualche modo si sono lasciati nutrire dall’oscurità e dalla rassegnazione in egual misura. A questo primo incontro ne seguiranno altri, tutti i giovedì alla stessa ora, in carcere, perché il protagonista è un condannato a morte e la ragazza lo va a trovare per conto di un comitato cattolico. Inizialmente costretta da sua zia Monica, una suora, pian piano la protagonista comincia a desiderare di andare dal ragazzo di sua spontanea volontà, e questo appuntamento del giovedì diventerà l’unica fonte di serenità e speranza per entrambi.


Il mio legame con quest’opera potrebbe essere quasi definito “destino”: come già accennato prima, l’ho conosciuta leggendo il manga, nei primissimi anni in cui mi ero addentrata nel magico mondo nipponico. Ne rimasi talmente colpita che a tutt’oggi, nonostante abbia alle spalle la lettura di centinaia di fumetti, è rimasto una delle mie opere preferite in assoluto, tanto da arrivare a rileggerla svariate volte. Dalla prima lettura sono passati anni: nel frattempo mi sono appassionata alle serie asiatiche e di conseguenza la mia attenzione non è stata più solo per il Giappone. Qualche mese fa ho scoperto che il manga che tanto amavo non era un’opera originale, ma che appunto nasceva da un romanzo coreano, e l’istinto me lo ha fatto comprare e leggere senza pensarci due volte.

Terminata la lettura, da cui sono rimasta completamente affascinata, mi sono informata ulteriormente e ho saputo dell’esistenza del film, diretto nel 2006 da Song Hae-Sung e intitolato “Maundy Thursday” (letteralmente “Giovedì Santo”), in cui i due protagonisti sono interpretati da Lee Na-Young e Kang Dong-Won.
Il motivo che mi ha spinto a scegliere questa splendida opera e ad analizzare tutte le sue versioni è che sono essenzialmente diverse tra loro: trovo sempre interessante vedere come dei media tanto differenti (romanzo, fumetto e cinema) si approccino alla stessa storia.

L’opera madre, il romanzo

“Le nostre ore felici” può essere facilmente interpretato come un libro sull’amore e sul perdono, soprattutto verso sé stessi, tuttavia io ho trovato questi aspetti più come la meta del percorso che affronteranno i personaggi. Un’altra chiave di lettura dell’opera è un’autentica riflessione sulla morte, sul significato della vita, e ancor più sulla rinascita.

I due protagonisti, Moon Yoo-Jung e Jung Yoon-Soo, provengono da due contesti completamente diversi: una, figlia di una famiglia benestante e a cui non è stato fatto mancare nulla sul piano meramente pratico, l’altro, cresciuto tra povertà e violenza. Eppure c’è una cosa che li accomuna fortemente: il loro stretto rapporto con la morte, appunto.
Yoo-Jung ha tentato tre volte il suicidio, Yoon-Soo è stato condannato alla pena capitale per impiccagione (unico metodo utilizzato in Corea del Sud negli anni ’90, quando l’attuazione della pena di morte era ancora attiva).
Entrambi i personaggi lasciano presagire un vissuto in cui non sembra fattibile addentrarsi senza essere banali e prevedibili, non tanto per l’impossibilità di svelare cosa ci possa essere al di sotto, ma piuttosto perché in un’opera di finzione si tende a trattare certi argomenti con fin troppo tatto, tanto da farla risultare superficiale e finta (forse per compiacere il lettore, o forse per la paura di apparire estremi).
L’autrice, Gong Ji-Young, ha trovato la chiave perfetta: con uno stile lessicale piuttosto semplice, e un’onestà di pensiero che ci fa sentire quasi colpevoli, questo romanzo s’infiltra nel lettore provocando un dolore vivido e percettibile. Il suo mettere in tavola punti di vista nati da personalità differenti, senza forzare mai uno rispetto all’altro, fa sì che non si percepisca minimamente l’ipocrisia di cui invece si macchiano alcuni dei personaggi descritti, come il fratello o la madre di Yoo-Jung.

Inoltre il contesto del periodo storico in cui è ambientato il romanzo, porta ancora di più a percepirne la limpidità: di fatto questo libro è un excursus sociale e antropologico della Corea del Sud della seconda metà degli anni ’90. Sebbene si fosse passati già da una decina di anni da uno stato dittatoriale sotto la legge marziale alla democrazia, i modi di fare e di pensare non erano particolarmente cambiati. Il percorso della rete sociale verso il cambiamento è molto più lento: a volte addirittura bisogna far passare una generazione, se non due, per vederne un effetto su ampia scala. In una parte del romanzo Yoo-Jung discute con il fratello procuratore, e in quel tratto, ad esempio, dice di aver assistito, anche se solo da fuori la porta, a una confessione estorta con la tortura, pratica utilizzata sotto la legge marziale, ma che, pur nel contesto democratico da poco sbocciato, era dura a morire. E così un paese intero si è trascinato dietro per anni gli aspetti negativi delle decadi precedenti: l’estrema povertà, le torture, la strumentalizzazione e l’oggettificazione della donna, la censura, l’omertà, il disinteresse, la disparità di classe, erano tutte realtà che stavano continuando a coesistere con un paese che sfrecciava alla velocità della luce verso l’innovazione.

L’aspetto peculiare di questo libro è che se all’inizio ogni personaggio mette in prima fila sé stesso, pian piano ognuno di loro si fa carico di qualcosa di più grande, e in parallelo con la propria storia passata e presente, si apre una chiave di lettura più ampia, quella che li vede diventare rappresentanti di uno spaccato della società, di uno status: ognuno ha lo scopo preciso di materializzare concetti, punti di vista, classi sociali differenti, senza però risultare mai impersonali o troppo astratti. Anzi, tutto il contrario: sono personaggi estremamente realistici e tangibili, molto ben caratterizzati e coerenti a loro stessi fino alla fine, anche nel processo di cambiamento interiore che affronteranno.

I due protagonisti, come già accennato, si incontrano tramite la zia di lei, suor Monica, che dopo il terzo tentativo di suicidio della ragazza, la mette di fronte a una scelta: o sottoporsi per un mese a sedute psichiatriche, o accompagnarla nelle sue visite ai carcerati condannati a morte.
Nonostante la forte repulsione per la religione e l’invito ben poco allettante, Yoo-Jong acconsente. Man mano che frequenterà Yoon-Soo e l’ambiente carcerario, in lei (e anche nel lettore) si farà ampiamente spazio una contraddizione di fondo che metterà in crisi i suoi ideali e le sue credenze più profonde, e dal sentirsi costantemente vittima di chiunque e della vita stessa, imparerà a osservare al di là dalla campana di vetro in cui si era da sempre rinchiusa. Diventerà difficile per la ragazza trovare un senso e una fiducia in un concetto di giustizia che si spinge all’omicidio per punirne un altro, in uno stato basato sulla corruzione, che della perdizione e dell’ipocrisia fa vangelo.
Yoo-Jong inizia così a simboleggiare un risveglio di coscienza della propria società, che ancora dormiente sotto l’effetto soporifero della dittatura e dei suoi modi, in un dormiveglia che si fa via via sempre più vigile, inizia a intuire le dinamiche contorte che si nascondono nella fitta rete di rapporti sociali fatti di connessioni e conoscenze.

Guardando da lontano è facile esprimere giudizi e sentenze, perché non ci tocca, tuttavia quando ci si avvicina a certe realtà, ai concetti si sovrappongono dei volti, alle condanne delle storie personali, ed è più difficile rimanere indifferenti: quando impariamo a conoscere quei volti e le verità che essi racchiudono, quelle verità che arrivano sempre prima dei fatti (concetto che esprime anche Yoo-Jong), allora ci sentiamo coinvolti in prima persona. Yoo-Jong, sapendo in che condizioni versano i carcerati, in particolare quelli condannati a morte, non riesce più ad avere giudizi generici e a sputare sentenze facili, come “si meritano tutti di morire”, “sono tutti delle bestie”. Quando si cerca di conoscere una persona in ogni suo momento e in ogni suo aspetto, non è così impensabile e impossibile dimenticare per un po’ e mettere da parte atti atroci che può aver commesso.
Questo non sminuisce in alcun modo colpe che esistono, e non diminuisce la punizione che si dovrebbe ricevere, bensì evita la banalizzazione dei fatti stessi e distrugge i preconcetti, incastonati in paletti che non lasciano spazio a sfumature di alcun genere, e che fomentano la credenza che esista, per tutte le cose del mondo, la netta distinzione tra bene e male, e la convinzione che chi è una brava persona, lo è sempre in ogni momento della vita e viceversa, chi non lo è, non lo è mai stato e mai lo sarà.

In egual modo, Yoon-Soo non vuole essere solo un personaggio con i suoi difficili trascorsi, bensì vuole simboleggiare il risultato di una società piena di contraddizioni, che produce mostri, per poi punirli e condannarli a morte per essere tali. Una società che negli anni ’90 rincorreva l’oasi di una vita sicura sotto la luce abbagliante dei grattacieli che, alti e maestosi, celavano le storture esistenti. Grattacieli che riempivano sempre di più le grandi città, in cui tutto sembrava possibile, ma come scrisse Goethe: “C’è un’ombra più forte, dove c’è molta luce”.
Lo sviluppo economico del tutto frenetico della Corea del Sud, ha portato, per forza di cose, a uno sbilanciamento repentino della società. Questo aspetto si percepisce in maniera quasi violenta nel tratto del libro in cui Yoo-Jong e la zia Monica vanno a trovare la mamma di una delle vittime uccise da Yoon-Su. Date le condizioni economiche in cui versa la famiglia, il quartiere in cui abitano è povero, e quello che pensa Yoo-jong in quel frangente è indicativo: “Non c’era bisogno di chiedere, per sapere che ci trovavamo in un quartiere povero. Mi chiedevo se questa fosse davvero una parte di Seoul, la stessa città che a volte mi sembrava ancora più sfavillante di Parigi. Qui la gente viveva ancora come negli anni sessanta, ammassata come in un alveare, e il tempo sembrava essersi fermato”.
Tuttavia Yoon-Soo simboleggia anche una possibile svolta di questa società, e per essa si materializza la possibilità di una rinascita dalle proprie ceneri, di una redenzione, di un perdono e di un cambiamento, non dovuti a una bontà ipocrita che al primo colpo di vento rischia di tornare sui suoi passi, ma a una ferma presa di coscienza degli errori commessi.

Un altro aspetto su cui questo romanzo porta a riflettere è la fortuna, o per meglio dire il caso: è solo una questione assolutamente fortuita che io, ad esempio, non sia nata in un quartiere povero di una qualsiasi metropoli, o in Africa, dove migliaia di bambini muoiono ogni giorno. Se così fosse stato, forse ora sarei in carcere per chissà quale crimine o non sarei nemmeno arrivata all’età adulta, perché morta prima per fame o malattia. La condizione in cui ci pone la società fin dalla nascita, è piuttosto decisiva nel plasmare ciò che diventeremo crescendo. Il lusso di capire il limite delle cose, di distinguere un’azione malvagia da una buona azione, se li può permettere solo chi ha gli strumenti per poterlo fare e chi ha la possibilità di scegliere quali azioni compiere e quali no.
Uccidere qualcuno è un’azione, per quanto terribile. Così, in qualche modo, dire “sei un assassino” con l’intento di definire l’intera persona con quest’affermazione, vorrebbe dire equipararne l’essenza a quel singolo atto (concetto da tenere per discostato dalle azioni dei serial killer o dei pluriomicidi, in cui subentra quasi certamente un disturbo mentale, quindi è una questione a parte). La persona esiste durante esso, ma è esistita prima ed esisterà dopo: tutti momenti in cui avrà fatto e in cui farà altro, oltre ad uccidere un essere umano, momenti in cui sarà stato e sarà altro, oltre a essere un assassino.
“Le nostre ore felici” ci porta proprio lì, in quel prima e quel dopo. Ci porta a voler cercare di capire e a provare interesse non per l’assassino, ma per la persona che ha fatto e farà altro ed è stata e sarà altro. Tutti hanno il diritto di piangere o sentire dolore, anche coloro che la società definisce “bestie”, e non esiste peccato commesso che possa esimere dal provarlo e che possa togliere il diritto di sentirlo. Proprio questa presa di coscienza che ogni dolore meriti di essere chiamato tale, riesce a fare scaturire il sentimento dell’empatia. Come dice la protagonista: “Non esiste compassione senza comprensione, e non esiste comprensione senza interessamento”. È da questo interessamento che nasce la compassione anche dove sembra inimmaginabile, che nasce la possibilità di amare e di farsi amare anche nel luogo più arido e impensato, tra persone che sembrano agli antipodi. 

Altro aspetto estremamente interessante è che nonostante il presupposto improbabile, visto l’anticlericalismo di Yoo-Jong e Yoon- Soo, a far da collante in quest’apparente distanza incolmabile tra i due, è suor Monica, dato che le visite con cui riescono a incontrarsi sono proprio del comitato cattolico: tuttavia la religione non viene sottoposta al lettore (e ai personaggi stessi) con l’aspetto dogmatico che ci si potrebbe aspettare, bensì come strumento con cui poter riuscire a vivere più in pace con sé stessi, come una medicina che con il suo effetto placebo riesce a curare un animo ferito, deluso e disilluso. Non traspaiono mai nessuna retorica e nessun’etica, né religiosa, né politica, né morale: si tratta solo di risvegliare in ognuno un senso di umanità che si è assopito o di insegnarlo nel caso in cui non si è mai avuto modo di impararlo.

Gli adattamenti

Prima di addentrarmi in analisi e confronti, trovo necessario fare delle puntualizzazioni: mentre il romanzo e il film sono ambientati in Corea del Sud (patria della scrittrice), il manga è ambientato in Giappone (patria della disegnatrice). Ciò spiega il diverso approccio alle questioni che vengono affrontate e come mai numerosi elementi sono stati “recisi” nell’adattamento.

Una delle questioni principali e che più aiuta a una giusta contestualizzazione della storia è quella della condanna a morte: sia in Corea del Sud, sia in Giappone, la condanna capitale esiste ancora, ma nel primo caso non è più effettiva dalla metà degli anni ’90 (periodo in cui è infatti ambientato il romanzo), nel secondo invece è ancora effettiva (nel 2018 sono state 15, nel 2019 3 e nel 2020 nessuna).
A parte questo aspetto comunque, come abbiamo visto poco sopra, il romanzo dipinge un profilo piuttosto dettagliato della Corea del Sud, dando vita a un quadro ricco e variopinto.
Questa attenzione che si nota nel romanzo, alla società e alle politiche dell’epoca, e anche alle relazioni tra i vari personaggi, che emerge particolarmente non tanto da tratti descrittivi, quanto dai dialoghi (il che rende il tutto molto dinamico), viene appiattito nel film, in cui la storia è “costretta” in solo due ore di pellicola e si punta maggiormente l’obbiettivo sul rapporto tra i due protagonisti, accennando solamente tutto il resto.
Il taglio è ancora più evidente nel manga, in cui però non si avverte una mancanza di approfondimento, poiché certi aspetti, invece di essere accennati per poi essere lasciati lì come nel film, non vengono affrontati per nulla. Tra l’altro, a maggior difesa del manga, si deve ragionare sul fatto che ricollocare il tutto in un altro paese avrebbe voluto dire riscrivere da zero l’intero contesto sociale e politico, cosa non impossibile ovviamente, ma di certo molto complessa.

Per quanto riguarda il film, se si è in cerca di una storia di amore dal profondo significato, allora è senz’altro consigliato, ma se si è in cerca di qualcosa che vada oltre e che tocchi anche altri temi in maniera altrettanto profonda, la visione deluderà quasi sicuramente. Per quanto mi riguarda, dal punto di vista emotivo l’ho trovato molto toccante, poiché il contesto in cui si svolge la storia è molto crudo e rimanere impassibili è quasi infattibile, tuttavia, avendo precedentemente letto il libro, mi sarei aspettata qualcosa di più, che non si focalizzasse quasi esclusivamente sulla storia d’amore.
Per quanto riguarda il manga, il discorso è un po’ diverso: innanzitutto, a differenza dei film che indubbiamente hanno esplorato il tema della pena capitale più e più volte in varie salse, trovare dei manga che lo affrontino è molto più raro, quindi non è difficile avvertire una senso di “novità” quando lo si legge. Ma ovviamente solo questo fattore non sarebbe bastato a rendere il fumetto tanto poetico e profondo.
Per far capire meglio, torno a fare un rapporto tra il film e il fumetto, e spiegherò chiaramente il perché io abbia preferito il secondo al primo come adattamento, nonostante sia quello che si discosti di più dal romanzo: per come la vedo io, in generale sarebbe meglio puntare su un solo aspetto e svilupparlo bene, piuttosto che affrontarne di più e abbozzarli a malapena, lasciando questioni non spiegate e che contestualizzano solo parzialmente, creando confusione. Pensandoci, nella creazione del film si potevano utilizzare vari escamotage per ovviare il problema del poco tempo a disposizione, ad esempio tagliare di netto alcune questioni come ha fatto il manga, oppure spiegarle tramite una narrazione fuoricampo dei protagonisti, che andasse a implementare la parte visiva e aiutasse ad analizzare meglio gli aspetti che invece sono rimasti ad aleggiare attorno alla storia portante.

Il manga, dal canto suo, recide tutto ciò che è effettiva contestualizzazione (e storica, e sociale) ed è così che, per assurdo, finisce per apparire “senza tempo”: non collegando la situazione generale a nulla di specifico (a parte la questione della pena di morte, che appunto, in Giappone è attiva ancora oggi), rimane una storia a sé stante, chiusa all’interno della prigione, all’interno dei dialoghi, fatta eccezione per l’avvio della narrazione che avviene fuori da quelle mura (e che prepara all’incontro tra i due), e dei flashback che mostrano cosa sia accaduto nel loro passato (tutto comunque al solo scopo di dare maggiore caratterizzazione ai personaggi e che non va mai a sovrastare il filone narrativo del presente).
In pratica, per fare un’analogia, il film può essere paragonato a una gustosa fetta di torta che però ti viene tolta prima che tu riesca a finirla, lasciandoti quindi con un senso di incompletezza e insoddisfazione, mentre il manga assomiglia più a un caldo piatto di riso, che nella sua estrema linearità, risulta senz’altro appagante. Morale? A volte, se si capisce che per esigenze pratiche o limiti tecnici non si può arrivare più in là di tanto, è meglio puntare sulla semplicità, piuttosto che rischiare di fare il passo più lungo della gamba e inciampare.

Detto questo, per me è comunque importante sottolineare che le considerazioni che ho fatto derivano da una mia conoscenza di tutte e tre le versioni e dalla volontà di fare un confronto tra di esse, analizzando i vari aspetti che le differenziano. Se però dovessi prendere in considerazione le tre opere separatamente, è probabile che il mio punto di vista cambierebbe (almeno in parte), soprattutto riguardo al film, che sì, mi è piaciuto in linea di massima, ma non mi ha entusiasmata. Questo perché, quando si guardano adattamenti di opere che abbiamo amato, fare il paragone risulta sempre automatico, anche con la piena volontà di essere più oggettivi possibile.
Il consiglio che comunque do in maniera spassionata a chi è rimasto incuriosito dalla storia è di avventurarsi in tutte e tre le versioni, perché ognuna la affronta tramite un tipo di arte, ed essendo queste tre arti tanto distanti tra loro, sanno donare emozioni molto variegate e a volte contrastanti. Per questo non risulta di ripercorrere la stessa strada più volte, ma di addentrarsi ogni volta in qualcosa di diverso.









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